Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele

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Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II - Amari Michele

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omaggio di fedeltà dai notabili d'Affrica e da non pochi di casa d'Aghlab. Con tutta la bruttura dello spergiuro e della commedia che servì a ricoprirlo, Ibrahim non va chiamato usurpatore. Il dritto di primogenitura non era allignato mai appo gli Arabi; la designazione del principe antecessore, era abuso; la investitura del califo, ormai vana cerimonia; e il popolo, che potea deporre ed eleggere, partecipò alla tumultuaria esaltazione non sforzato, forse mezzo raggirato e mezzo no. Gli umori delle città contro l'aristocrazia militare, ci persuadono che la cittadinanza abbia francamente parteggiato per Ibrahim.

      Severi, ma di rigor salutare, i primordii del regno. Trattando sempre dassè le faccende pubbliche, Ibrahim cessò i soprusi degli oficiali e governatori di province: rendea ragione ogni lunedì e venerdì nella moschea cattedrale del Kairewân, ascoltando con pazienza i richiami, e provvedendo immantinenti; diè di sua persona esempii di astinenza e pietà; ristorò la polizia ecclesiastica; sgombrò le strade dei ladroni che le infestavano; assicurò il commercio, spense i violenti e gli scapestrati. Si narra di lui che obbligasse la madre al pagamento di un debito, minacciando di lasciarla tradurre dinanzi il cadi:98 la madre, sola creatura umana rispettata da quel mostro. Attese molto alle opere pubbliche. A comodo dei cittadini, costruì un gran serbatoio d'acqua al Kairewân. Per magnificenza e pietà innalzò una moschea cattedrale a Tunis; e aggrandì quella del Kairewân; aggiuntavi inoltre una cupola che poggiava su trentadue colonne di marmo. Circondò Susa di mura. Compiè su la costiera del reame una linea di torri e posti di guardia, ordinata a far segnali coi fuochi, sì che in una notte potea tramandarsi avviso da Ceuta ad Alessandria di Egitto.99 Cotesta pratica antichissima era scesa con le tradizioni dell'impero infino ai Bizantini; i quali nella prima metà del nono secolo l'adoperavano a significare i tristi casi di lor guerre, da Tarso a Costantinopoli.100 E v'ha ragioni da credere ch'e' se ne fossero avvalsi anco in Sicilia, e che quivi avesserla appreso gli Arabi d'Affrica.101

      Innanzi ogni altra opera pubblica, Ibrahim avea costruito una cittadella, centro di gravità della tirannide ch'ei macchinava: fortezza ove porre sua corte e ordinar novelli pretoriani per disfarsi degli antichi, i liberti di casa aghlabita, ridotti nel Castel Vecchio, stati fin allora padroni del popolo e del principe. Fece por mano a' lavori il dugento sessantatrè (23 settembre 876 a 11 settembre 877), in luogo discosto quattro miglia dal Kairewân e chiamato Rakkâda, “Sonnolenta” come suona appo noi.102 Entro un anno, fornite le mura, innalzata una torre che addimandarono di Abu-'l-Feth,103 Ibrahim inaugurolla con sanguinoso tradimento. Era avvenuto che i liberti del Castel Vecchio tumultuassero contro di lui per aver fatto morire un di lor gente: e allora, ito loro addosso per comando d'Ibrahim il popolo della capitale, i liberti, vedendosi sopraffatti, avean domandato e ottenuto perdono. Ma il dì che dovean toccar lo stipendio, Ibrahim li chiama alla torre di Abu-'l-Feth; li fa entrare a uno a uno; disarmare; incatenare: e diè mano ai supplizii; ch'altri morì sotto il bastone, altri condannato a perpetuo carcere in Kairewân; altri bandito in Sicilia.104 In luogo dei liberti, comperò schiavi in grandissimo numero; prima negri, poi anco di schiatta slava: li vestì; li esercitò nelle armi; ne fece un grosso di stanziali, valorosi, induriti alle fatiche;105 massa di bruti della zona torrida e del settentrione disumanati dal servaggio e di più dalla disciplina. Così passarono i primi sei anni del regno; lodevoli del resto a detta di tutti i cronisti, i quali tenean forse necessaria la carnificina di Abu-'l-Feth. Poi sfrenossi a dar di piglio nella roba e nel sangue; peggiorando di anno in anno, come nota l'autore del Baiân.106

      Perchè, non bastando le entrate ordinarie dello stato a spesare gli stanziali, le fabbriche e la guerra che sopravvenne (an. 880, 881) contro un principe d'Egitto della dinastia usurpatrice dei Beni-Tolûn, era strascinato Ibrahim ai maltolti. L'anno dugento settantacinque (888-889) battè nuova moneta d'argento, che, rifiutata dai mercatanti del Kairewân, diè occasione a tumultuarie rimostranze, imprigionamenti, sollevazione: e Ibrahim, al solito, restò di sopra. Donde facea coniare altri dirhem e dinâr decimali, com'ei li chiamò, perchè i primi d'argento e i secondi d'oro stavano in valore come uno a dieci; e tolse di mezzo le buone monete dell'impero abbassida.107 Oltre questo espediente di finanza, ponea nuove gabelle;108 aumentava le tasse prediali e riscuoteale in danaro, non più in derrate;109 richiedeva i cittadini che apprestassero a servigio dello Stato loro schiavi e giumenti; in cento modi li espilava per accumular tesori.110

      A misura degli aggravii prorompean pure le sollevazioni; e a misura di quelle incrudeliva Ibrahim. Ne noterò solo i fatti rilevanti. Ribellavansi ricusando le tasse, l'anno dugentosessantotto (881-882), le tribù berbere di Wuezdàgia, Howâra e Lewâta: ed erano oppresse, l'una da Mohammed-ibn-Korhob, ciambellano, le altre da Abd-Allah figliuolo d'Ibrahim, mandatovi con gran gente di giund, liberti, leve in massa, e ausiliarii forniti al certo da altre tribù berbere: sì fermo Ibrahim guidava tutti i cavalli del carro, poichè s'ebbe aggiustata in mano quella ferrea sferza degli schiavi stanziali.111

      Poi surse in arme la colonia di Belezma, gente arabica della tribù di Kais, venuta la più parte nei principii del conquisto, e stanziata da parecchie generazioni in quella città, sul confin meridionale dell'odierna provincia di Costantina, in mezzo alla catena degli Aurès, donde teneva a segno la tribù berbera di Kotâma. Gli agguerriti Arabi di Belezma ributtarono Ibrahim, ito in persona a combatterli: ond'ei perdonò loro; attirò a Rakkâda, prima alcuni capi sotto specie di trattar faccende, poi, con altri pretesti, più numero di gente; lor diè splendide vestimenta, onori quanti ne vollero e alloggiamento in uno edifizio circondato di mura con una sola porta, nel quale settecento o mille cavalieri, chè tanti se n'erano accolti, se pur pensavano allo esempio dei liberti del Castel Vecchio, si fidavano al certo di affrontar chi che si fosse. E così ogni evento delle istorie avvera la sentenza del Machiavelli, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà ingannare.112 Il dì che le altre soldatesche toccavan la paga, inebbriate di danaro, fors'anco di vino, Ibrahim le lanciava allo scannatoio ov'eran serrati i guerrieri di Belezma; i quali (893-894) valorosamente si difesero; e tutti perirono.113 La pena di tal misfatto, come spesso accade, la pagò non Ibrahim, ma la dinastia; poichè, decadendo Belezma, la tribù di Kotâma imbaldanzì, e condusse al trono i Fatemiti.114 Più pronto gastigo minacciava la sollevazione generale delle milizie arabiche, scoppiata immediatamente e rinnovatasi poi varie fiate; ma Ibrahim trionfò di tutti, mercè le mura di Rakkâda, la virtù militare del figliuolo Abd-Allah, e gli schiavi armati; dei quali accrebbe il numero; lor affidò la reggia; e pose capitani sopra di loro due schiavi, Meimûn e Rescîd. Accentrò al medesimo tempo Ibrahim grande autorità in persona di Hasân-ibn-Nâkid, nuovo suo ciambellano, capitan di eserciti, emir di Sicilia, e rivestito di altri oficii, scrive la cronica,115 probabilmente le amministrazioni di finanza, e il tribunale dei soprusi nelle province sollevate.

      Tra i casi di questa rivoluzione seguirono non più udite enormezze dei soldati regii, i quali, presa Tunis per battaglia, fecero schiavi tra i Musulmani, sforzaron le donne e sparsero gran sangue (893-894). Dato avviso della vittoria a Rakkâda per lettere legate al collo dei colombi, Ibrahim rescrisse di caricare i cadaveri su le carra; mandarli a Kairewân; e condurli in giro per le strade. Comandò, non guari dopo (894-895), di mettere a morte i nobili della tribù di Temîm, ceppo di sua famiglia, e appendere i cadaveri alle porte di Tunis. Ministro di tai vendette era stato Meimûn, nominato dianzi, donde venne fieramente in odio a quei cittadini; ma Ibrahim, non prima n'ebbe sentore, che gli mandò, diremmo noi, un bell'ordine cavalleresco: all'uso di que' tempi

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<p>98</p>

Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 92 recto; e MS. C, tomo IV, fog. 246 verso, anno 261; Baiân, tomo I, p. 110, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduz. di M. Des Vergers, p. 126, seg.; Nowairi, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduz. di M. De Slane, tomo I, p. 424, seg.

<p>99</p>

Veggansi le autorità citate nella nota precedente; e vi si aggiungano: Bekri, Descrizione dell'Affrica nelle Notices et extraits des MSS., tomo XII, p. 470; Tigiani, Rehela nel Journal Asiatique, série IV, tomo XX (agosto 1852), p. 99; e tomo XXI (febbraio 1853), p. 133; Ibn-Wuedrân, MS. arabo, § 6; e versione di M. Cherbonneau, nella Revue de l'Orient, decembre 1853, p. 428. Il primo parla soltanto della Moschea di Kairewân; l'ultimo di quella di Tunis, e del serbatoio d'acqua.

<p>100</p>

Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXXV, p. 197; Constantinus Porphyrogenitus, De Cerimoniis aulæ Byzantinæ, appendice al Iº libro, p. 492; Symeon Magister, De Michæle et Theodora, cap. XLVI, p. 681. I posti in tutto erano nove, compreso quello di Costantinopoli. Il numero diverso dei fuochi indicava diversi casi, come: assalto dei Musulmani, battaglia, incendio, etc. Leone, arcivescovo di Tessalonica e professore alla Magnaura, al dire di Symeon Magister, avea perfezionato questo sistema telegrafico, ponendo a Tarso ed a Costantinopoli due orologi che si supponeano isocroni (ὲξ ἴσου κάμνοντα). L'imperator Michele l'ubbriaco fece sopprimere i segnali a vista della capitale, perchè i sinistri avvisi non lo venissero a sturbare tra i giochi dell'ippodromo.

<p>101</p>

Questa conghiettura è fondata su gli indizii seguenti. Primo, che i fuochi di segnali usati in Sicilia fino agli ultimi anni del secolo passato per dare avviso dei corsali barbareschi che si avvistassero, si chiamavan fáni, appunto la stessa voce φάνος, che troviamo nei citati scrittori bizantini. Da ciò par che l'usanza risalga ai tempi in cui il linguaggio oficiale in Sicilia era il greco. Secondo, che la montagna ove sorgea l'antica Solunto, alla estremità orientale del golfo di Palermo, si addimanda tuttavia Catalfano, voce scorciata da Calatalfano e composta dall'arabico kala't (rocca) e da φάνος; il che prova che vi fosse stata una torre da segnali al tempo della dominazione musulmana, o anche prima. Terzo, che i segnali con fuochi furono tentati nell'847 durante lo assedio di Lentini, come già narrammo nel Libro II, cap. VI, p. 317 del primo volume.

<p>102</p>

Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 215; Nowairi, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 424; Bekri, Descrizione d'Affrica nelle Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 476, 477; Ibn-Wuedrân, MS. arabo, § 6º. I due ultimi scrittori riferiscono la fondazione di Rakkâda agli anni 273 e 274. Il nome nacque, secondo alcuni, dall'amenità del sito che inebbriasse di voluttà e sforzasse al sonno; secondo altri, da un gran mucchio di cadaveri che vi si trovarono a dormir l'ultimo sonno.

<p>103</p>

Si pronunziino le ultime due lettere ciascuna col proprio suono, non unite con quello della th inglese. Il nome vuol dir “Padre della vittoria.”

<p>104</p>

M. De Slane, op. cit., p. 425, ha tradotto queste parole del Nowairi “un certain nombre d'entr'eux parvint à se réfugier en Sicile.” Ma il testo dice chiaramente “rilegare,” e così lo ha interpretato M. Des Vergers in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 127.

<p>105</p>

Ciò è notato da Nowairi, op. cit., p. 425, e 427. Veggansi per cotesti fatti: Nowairi, l. c.; e il Baiân, tomo I, p. 110.

<p>106</p>

Tomo I, p. 126.

<p>107</p>

Baiân, tomo I, p. 114. Quivi si fa menzione di due diverse emissioni di moneta. L'una fu di dirhem sihâh, ossiano “schietti,” come li chiamava il principe. Così ei soppresse le ritaglie d'oro senza conio, con che si soleano pagare le frazioni di valori, per lo scrupolo religioso di non cambiar metallo con metallo; onde si tenea biasimevole pagando, per esempio, una merce del valore di mezzo dinâr, dar al venditore un dinâr e riceverne mezzo dinâr in altra moneta. Per questa ragione nei paesi musulmani i cambiatori, sirâfi, come li dicono, erano per lo più giudei. Non sappiamo se desse luogo al malcontento quello scrupolo di coscienza, ovvero la cattiva lega dei dirhem. Represso il tumulto, aggiunge il Baiân, rimasero abolite per sempre in Affrica, non solo le ritaglie (kitâ'), ma anche i nokûd, che significa buona moneta in generale, e qui parmi si debba intendere di quella dei califi, che avea corso in tutti i paesi. Venne dopo ciò la coniazione dei dirhem e dinâr detti 'asceri, ossia decimali. La numismatica ci permette di aggiugnere che Ibrahim coniasse altresì quarte di dinâr in oro; che ve n'ha pubblicate parecchie, e una ne ho veduto nel Cabinet des Medailles di Parigi, uscita probabilmente dalla Zecca di Sicilia l'anno 268, e del peso di un grammo e cinque centesimi, che valea da tre lire e sessanta centesimi pria della attuale perturbazione nel pregio dell'oro.

<p>108</p>

Baiân, tomo I, p. 125. Quivi è usato il vocabolo kabâlât, al singolare kabâla o gabâla, poichè la prima lettera partecipa del suon della g. Indi è agevole a riconoscervi la nostra voce gábella. Etimologicamente significa promessa, offerta, prestazione.

<p>109</p>

Baiân, l. c. Il testo porta che nel 289 Ibrahim, riformando parecchi abusi del proprio governo “prese le decime in frumento e rilasciò il kharâg di un anno ai possessori delle dhiâ'.” Le varie significazioni di queste voci, di che abbiamo discorso nel capitolo precedente, lascian dubbio se le decime fossero zekât, ovvero tributo fondiario su i grani, e il kharâg rilasciato, questo medesimo tributo, ovvero censo; e in fine se si tratti di dhiâ', poderi demaniali, ovvero beneficii militari.

<p>110</p>

Baiân, tomo I, p. 117, anno 280 (893-894).

<p>111</p>

Nowairi, in appendice all'Histoire des Berbères, par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 426; Ibn-Khaldûn stesso, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 128. Secondo Ibn-Khaldûn, ebbe infino a 3,000 schiavi stanziali; secondo il Baiân a 5,000, e Nowairi dice 100,000, forse il numero totale dello esercito.

<p>112</p>

Il Principe, cap. XVIII.

<p>113</p>

Baiân, tomo I, p. 116; Nowairi nell'opera citata, p. 427, il quale registra questo fatto due anni prima del Baiân, cioè nel 278.

<p>114</p>

Questa riflessione si legge nel Baiân, l. c.

<p>115</p>

Nowairi, op. cit., p. 498. Veggasi ciò che notai a questo proposito nel Libro II, cap. X, p. 429 e 430 del primo volume.