Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II. Amari Michele
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Sì lunghe discordie non poteano ignorarsi dai Cristiani. Que' di Val Demone le aveano usato nella tregua dell'ottocento novantacinque, nella quale sembra entrato, allora o poi, lo stratego di Calabria; atteso che Giovanni Diacono di Napoli dice provocata da cotesto accordo la guerra di Abd-Allah in quella provincia.150 Nel medesimo tempo Sant'Elia da Castrogiovanni, ancorchè ottuagenario e infermo, si apprestava a ripassare in Sicilia, lusingato, forse richiesto, dall'imperatore Leone il Sapiente: Elia da Castrogiovanni, stato ausiliare di Basilio Macedone nel tentato racquisto dell'isola venti anni innanzi; e il vedremo tra non guari incoraggiare, a modo suo, all'estrema difesa il popolo di Taormina.151 Vedrem anco novelli sforzi dei Bizantini: un patrizio e un presidio mandati a Taormina; grand'oste adunata a Reggio; armata venuta di Costantinopoli a Messina. I quali fatti mostrano ad evidenza che l'impero fe' disegno nelle guerre civili dei Musulmani e nel bisogno che avea di lui la colonia ribelle. Dopo la occupazione di Palermo, l'impero armò un poco; suscitò al riscatto le popolazioni cristiane dell'isola, alla guerra quelle di Calabria; trascinato egli stesso dai Musulmani rifuggiti a Taormina, a Costantinopoli e in Calabria, i quali speravano gran cose al certo e molte più ne diceano.
Abd-Allah, sapesse o no coteste pratiche, dovea combattere la guerra sacra, per dare sfogo agli agitati animi dei Musulmani di Sicilia, per soddisfare a sè stesso, alla opinione pubblica, al padre. Non tardò dunque a uscir di Palermo; cavalcò il contado di Taormina; svelse le vigne; molestò il presidio con avvisaglie; e come l'inverno s'innoltrava, sperando ridurre più agevolmente Catania, città in pianura, la assediò; ma indarno. Perlochè, tornato in Palermo a svernare, apparecchiò più poderosi armamenti, e, abbonacciata la stagione, fe' salpare il navilio a' venticinque marzo del novecento uno. Egli con l'esercito andò a porre il campo a Demona; piantò i mangani contro le mura; le battè per diciassette giorni; ma risaputo d'un grande sforzo di genti che i Bizantini adunavano in Calabria, lasciò stare il presidio di Demona buono a difendersi e non ad offendere; e volò con l'esercito a Messina. Par che l'armata vi fosse ita innanzi, e che la città si fosse di queto sottomessa. Abd-Allah passava immantinenti lo stretto. Trovata l'oste sotto le mura di Reggio, un'accozzaglia dei presidii bizantini dell'Italia meridionale e di Calabresi che li abborrivano, i Musulmani la sbaragliaron col solo terrore, dice Giovanni Diacono. Mentre i fuggenti correano da ogni banda per la campagna, Abd-Allah irruppe senza ostacolo in città il dieci giugno. Le feroci genti sue cominciarono una strage indistinta: poi l'avarizia consigliò di far prigioni; che ne ragunarono diciassettemila, tra i quali fu tratto in carcere, come scrive Giovanni, il venerando vescovo dal crin bianco e dalla faccia colorita, spirante dolcezza. Immenso il cumulo della preda: oro, argento, suppellettili; rigorosamente custodito dai vincitori, continua il medesimo autore, e ben si riscontra con la legge musulmana che vieta di scompartire il bottino in territorio nemico. Vi si aggiunsero i tributi e presenti delle città vicine, le quali si affrettavano a mandare oratori chiedendo l'amân; poichè Abd-Allah avea dato voce di volere stanziare a Reggio. Ma improvvisamente ei ripassa lo stretto, sapendo arrivata da Costantinopoli a Messina un armata greca; e la coglie nel porto; le prende trenta legni; fa diroccar le mura della città, per gastigo o cautela. Intanto traghettavano continuamente da Reggio a Messina le navi da carico, zeppe di roba e schiavi. Abd-Allah condusse di nuovo l'armata su le costiere di Terraferma; combattè altri nemici, forse gente dei duchi Franchi di Spoleto e Camerino, condotti ai soldi dell'imperatore di Costantinopoli. In questa impresa il principe aghlabita occupò, il venti luglio, una città di cui non ben si legge il nome, forse Nardò;152 e si ridusse alfine con tutte le genti in Palermo, donde mandò nunzii al padre col racconto delle vittorie e il meglio del bottino. Fino alla primavera del novecentodue, quando andò a trovarlo ei medesimo in Affrica, Abd-Allah soggiornò nella capitale della Sicilia, reggendo i popoli con giustizia e bontà.153
Corse fama in Italia che Ibrahim, intendendo dai messaggi del figliuolo la impresa di Reggio, prorompesse in rampogne: “Non esser suo sangue, no, tener dalla madre, questo svenevole che s'impietosiva dei Cristiani e tornava addietro, principiate appena le vittorie! Se ne venisse dunque a poltrire in Affrica, chè egli, Ibrahim-ibn-Ahmed, andrebbe a mostrare ai nemici di Dio e degli uomini il valor vero della schiatta d'Aghlab.” A queste parole d'ira s'aggiugneano romori contraddittorii: che Abd-Allah segretamente sopraccorresse a corte per falso avviso della morte del padre; che Ibrahim vistoselo accanto, in luogo di incrudelire, gli rinunziasse il regno e ponessegli al dito il proprio anello.154
Così tra le fole si risapea la verità. Al dir d'una cronica araba, la verità era che richiamatisi i Musulmani di Tunis appo il califo abbassida Mo'tadhed-Billah delle enormezze che aveano a sopportare, e mostratogli che certe schiave che Ibrahim gli avea mandato in dono, fosser le mogli e figliuole loro, Mo'tadhed inorridito si risovveniva d'essere pontefice e imperatore. Facea dunque sentire in Affrica, la prima volta da un secolo, i voleri del successor del Profeta. Significavali per un messaggiero; al quale Ibrahim volle farsi incontro in attestato di riverenza, contenendo i superbi movimenti dell'animo, con sì duro sforzo, ch'ei ne fu colpito di malattia biliosa, e costretto a sostare alla sibkha, o vogliam dire stagno salmastro di Tunis. Abboccatosi quivi segretamente con l'ambasciatore, promesse di ubbidire al califo; il quale per bocca di costui, senza comando scritto, gli ingiugnea di risegnare il governo al figliuolo Abd-Allah e rappresentarsi in persona a Bagdad.155 Tanta modestia civile d'Ibrahim si comprenderà meglio, considerando ch'ei già sentiva crollare il trono aghlabita. Una sètta politica, delle tante che ne covavano sotto la teocrazia musulmana, s'era appresa alla forte tribù berbera di Kotâma; e scoppiava già in aperta ribellione, minacciando al paro il principato d'Affrica e il califato. In Affrica, Arabi e Berberi, ortodossi e scismatici, nobiltà menomata dai supplizii e plebe spolpata sotto pretesto di farle giustizia contro i nobili, a una voce tutti maledivan l'Empio, come il chiamarono per antonomasia.156 Minacciavalo di più, dall'Egitto, la dinastia dei Beni-Tolûn, potentissimi di ricchezze e d'ardire, imparentati col califo, usurpatori che per far più guadagno s'offrian sostegni alla legittimità. Sovrastandogli dunque novella guerra civile, complicatissima, spaventevole, senza speranze di uscirne vincitore, ei riformò il governo e abdicò, fingendo d'ubbidire al califo. Notevole è che un altro cronista, copiato o abbreviato nel Baiân, senza far parola del messaggio di Mo'tadhed, attribuisce a dirittura le riforme d'Ibrahim ai movimenti della tribù di Kotâma, e dice che allora ei volle farsi grato all'universale, e riguadagnare gli animi degli antichi partigiani di casa d'Aghlab.157
Pose il nome d'anno della giustizia al dugentottantanove dell'egira (16 dicembre 901 a 4 dicembre 902) che incominciava tra quelle vicende; abolì le gabelle; disdisse le novazioni nel modo di riscuotere le decime;158 rimesse agli agricoltori un anno di tributo fondiario; liberò i prigioni di stato; manomesse i proprii schiavi; cavò dalli scrigni grosse somme di danaro e dielle ai giuristi e notabili di Kairewân per dispensarle ai bisognosi; ma ebberle, aggiugne un cronista, quei che men le meritavano e furono scialacquate.159 Con ciò premurosamente scriveva ad Abd-Allah di venire in Affrica; il quale, lasciato l'esercito in Palermo ai proprii figliuoli Abu-Modhar e Abu-Ma'd, andò in fretta con cinque galee sole.160 Arrivato ch'ei fu, Ibrahim, del mese di rebi' primo (13 febbraio a 14 marzo 902), gli risegnava il principato. Quanto a sè, non potendo rimanere in Affrica nè volendo ire a Bagdad, scrisse al califo ch'ei si metteva in pellegrinaggio
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Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr; il
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Johannis Diaconi Neapolitani, Martirio di San Procopio presso il Gaetani,
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Vita di Sant'Elia, presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 73.
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Si trova nel solo Ibn-el-Athîr, in un passo di cui abbiamo tre MSS. con tre lezioni diverse:
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Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 verso; e MS. di Bibars, fog. 123 recto, seg.; ed anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars, fog. …; Johannes Diaconus,
Più che ad ogni altro si badi a Ibn-el-Athîr, e Giovanni Diacono. Nei MSS. A e di Bibars si legge che le navi musulmane tornavan da Reggio a Messina cariche di roba e
Adesso debbo allegar le testimonianze di quell'ultima impresa di Abd-Allah, dopo la distruzione delle mura di Messina. Ibn-el-Athîr, abbozzando sotto l'anno 261 una biografia di Ibrahim-ibn-Ahmed, dice che proponendosi costui il pellegrinaggio e la guerra sacra, andò a Susa l'anno 289 (902) “e indi passò col navilio in Sicilia,
E ciò perchè Ibn-Khaldûn, il quale compendiava gli annali di Ibn-el-Athîr, e un'altra cronica più antica, dopo tutte le imprese di Abd-Allah come noi le abbiamo narrato, fino alla distruzione delle mura di Messina, continua: “Indi tragittò nella vicina parte d'Italia (così va resa la denominazione di
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Johannes Diaconus Neapolitanus, l. c.
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Nowairi,
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Veggasi nel Capitolo II del presente libro la nota 2 a p. 55.
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Riscontrinsi: il
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Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 verso; e MS. di Bibars, fog. 123 recto, seg.