La guerra del Vespro Siciliano vol. 2. Amari Michele

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La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - Amari Michele

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cresciuto di potenza, perchè come i nostri videro più da presso la minaccia del giogo angioino, la perfida morbidezza di Giacomo, prendendone sempre in maggiore abborrimento la dominazione straniera, che sotto Carlo li avea calpestato sì orrendamente, sotto il re d’Aragona macchinava tal tradigione, vennerne al fermo proposito di rifarsi indipendenti; e più s’accostaron gli animi a Federigo.

      Allor sopravvenne la elezione del nuovo pontefice, tardata oltre due anni per Discordia de’ cardinali, precipitata come per caso, a dì cinque luglio del novantaquattro, col tristo spediente di chiamare un uom dappoco; ma sotto ogni pochezza nelle cose mondane fu Pietro da Morrone, romito abbruzzese, che per vita povera, e straziata d’austerità, avea già riputazione di santo108. La quale esaltazione come fu nota a corte d’Aragona, Giacomo affrettavasi a ultimare il trattato. Inviò in Sicilia a diciotto di luglio Raimondo Vlllaragut, che ritentasse di trarre al suo intento Federigo, e la madre, e gli nomini di maggior seguito. Volle tor dal fianco di Federigo, Corrado Lancia e Blascoq Alagona, intrinsechi del giovane; ai quali il re comandava che di presente venissero in Catalogna. A Corrado surrogò un uom suo, Ramondo Alamanno, sì nell’uficio di gran giustiziere e sì nel comando del castel di San Giuliano109. E intanto la guerra, condotta fin qui assai debolmente come finita nell’animo de’ governanti, posava del tutto in una tregua110. Carlo II, per pratiche, racquistava Cotrone in Calabria111; e a darsi riputazion di munificenza, largiva immunità a questa e quell’altra terra, travagliata per l’addietro da’ nimici112.

      Celestino V, tal nome prese Pier da Morrone, volle tra’ suoi Abbruzzi in Aquila consagrarsi: entratovi per umiltà sur un asino; ma l’addestravano due re, Carlo II di Napoli, e Carlo Martello d’Ungheria, fattisi, tra per pietà e ambito, a corteggiarlo assai strettamente. Preso alle quali arti, non ostante che vi ripugnasse forte il sacro collegio, Celestino fissò la sede in Napoli; creò molti cardinali di nazione o parte francese; e fuor da’ consigli e dagli usi della romana corte tanto uscì di via, che religiosi scrittori del tempo, scherzando sulle formole, il proverbiavano: da pienezza di semplicità, non di potestà, decretar Celestino113. Ma portato dalla corte di Napoli, ben per la Sicilia fe’il papa.

      Con lo stracco pretesto di Gerusalemme, e di volere far pianta di quella guerra la nostra isola, ratificò a primo d’ottobre milledugentonovantaquattro il trattato di Junquera. Nel quale Carlo promettea d’impetrare per Giacomo e il suo reame, piena assoluzione dalle scomuniche, piena remission d’ogni offesa che i reali di Aragona e que’ popoli e i popoli di Sicilia recato avessero a casa d’Angiò e alla santa sede, e la restituzione del reame d’Aragona, in que’ dritti e termini medesimi in che il tenea re Pietro pria delle sue scomuniche; al qual effetto re Carlo procacciasse la rinunzia del re di Francia, e di Carlo di Valois. Restituiva Giacomo a Carlo tutti gli statichi; restituiva le Calabrie, e le isole adiacenti a Napoli. Stipulava rimetterebbe la Sicilia con Malta e le altre isole adiacenti, in poter della Chiesa nel termine di tre anni dal primo novembre del novantaquattro, a patto che la Chiesa tenessela un anno, nè la cedesse ad alcuno senza saputa di Giacomo. E vergognosa conseguenza ne fu l’altro patto, che resistendo i Siciliani, ei s’adoprerebbe con la forza a domarli114. Assentiti questi accordi, largheggiò Celestino a re Carlo per la difesa del suo reame e ’l racquisto dell’isola, le decime ecclesiastiche delle province francesi per quattro anni, e per un anno quelle d’Inghilterra e d’altre regioni di là dai mari. Poco stante chiamò Giacomo stesso ad Ischia: scissegli apponendo a grave peccato, per cagion di parentela, il matrimonio con la Isabella di Castiglia; e mandavagli che fuggisse quelle nozze per menar una figliuolia di re Carlo, a lui congiunta ancora di sangue115. A tai scandali ne venne il pio Celestino; nè pur fu destro a servirsene, perchè prese termine sì lungo all’affare di Sicilia, e non assicurò punto la sommissione de’ popoli, non compose del tutto le differente tra Francia e Aragona116; onde il trattato a nulla tornava.

      Questo inchinò Carlo alle ambizioni di Benedetto Gaetani da Anagni, salito in riputazione da avvocato nella curia papale, fatto indi notaio del papa, e cardinale; uom procacciante, superbo, capacissimo nelle civili faccende il quale poc’anzi a Perugia era venuto ad aspre parole col re, ed or guadagnosselo con dirgli preciso; che Celestino avea voluto e non saputo aiutar casa d’Angiò; ei vorrebbe, e potrebbe, e saprebbe. E a Celestino gravava il papato, per coscienza e per sentirne mormorare ogni dì i cardinali; onde il tranellarono al rifiuto; e perfin si legge che ’l gaetani grossolanamente fingesse al semplice romito chiuso nella sua stanza, voce del Cielo che gl’imperava spogliarsi il gran manto. Ond’ei lasciollo, non ostanti le preghiere, veraci del popolo di Napoli, infinte della corte. Per la possanza di lei, indi a pochi dì, la vigilia del Natale del novantaquattro, in Napoli fu rifatto pontefice il Gaetani; quel famoso Bonifacio VIII, che salì da volpe, da lione regnò, e da cane morì, secondo la sentenza profetica, foggiata da poi e data a Celestino, come se a lui medesimo la dicesse nella prigione, ove per comando di Bonifacio fu chiuso, e finì in poco tempo, non senza sospetti di morte violenta. Ed or congiunto, scrive Speciale, il potere all’astuzia, si die’ tutto Bonifacio a scior quell’inviluppato nodo della siciliana lite117. Oltremonti gli ambasciadori di Giacomo e di Francia, con la riputazion del novello papa, ristringeansi un’altra volta a spianar gli ostacoli rimasi tra loro118; Bonifazio serbò il più grave a sè stesso, quasi per provarvi il suo ingegno. Avuti o richiesti, poco appresso la esaltazion sua, legati di Federigo, che furono Manfredi Lancia e Ruggiero Geremia, raccolseli umanamente il papa, li rimandò con grandi promesse, e l’importanza della cosa maneggiar volle da sè con Federigo; cui, non potendolo trar di Sicilia con forza, avean mostrato per l’addietro la dignità di senatore di Roma o altra debol’esca; ma Bonifazio pensò abbagliarlo profferendo una bella sposa e un impero. Mandogli un suo cappellano con breve dato il venzette febbraio del novantacinque, richiedendolo che venisse a corte di Roma con Giovanni di Procida, Ruggier Loria, e i primi d’ogni siciliana città, muniti di pien mandato de’ popoli. Portava i salvocondotti il medesimo nunzio. Federigo, proponendosi obbedire, immantinenti alle città nostre ne scrisse.

      Il che è prova non dubbia della importanza che ritenea o ripigliava in tal frangente l’elemento municipale e popolare, ristorato dalla rivoluzione; il valor del quale d’altronde risplende assai nobilmente nell’epistola, che il comune di Palermo drizzò a Federigo, e rincalzò con la viva voce di tre inviati, Niccolò di Maida cavaliere, Pier di Filippo, e Filippo di Carastone giudici. Ricordavasi all’infante per queste lettere la romana corte qual fosse: il sommo Iddio aver giudiccato tra lei e la Sicilia, con quella serie di strepitose vittorie de’ pochi contro gli assai; tranquillasse gli agitati animi de’ cittadini; non desse in questo laccio dell’andata al papa, onde null’altro che danno incor gliene potrebbe119. Ma Federigo, com’è timida l’ambizione di chi siede sull’alto, e ama piuttosto lasciarsi raggirar dai potenti che fondare in su i popoli combattuta ma grande fortuna, ostinossi all’andare. Montato sulla flotta con Procida che il tirava alla via più ignobile, e con Loria, e molti altri rinomati nella guerra o nei civili consigli, approdava negli stati della Chiesa sotto il monte Circeo, poc’oltre il dì assegnato dal papa; e non trovando Bonifazio, a lui andava a Velletri.

      Atteggiossi allor Bonifazio a paternal carità. Inginocchiatosi dinanzi a lui Federigo, il rialza, prendegli il capo con ambo le mani, il bacia affettuosamente; e veggendolo balioso e svelto portar l’armatura, prese a lusingarlo: «Gentil garzone, ben par che da fanciullo reggevi quel duro peso.» Poi volto a Loria, senz’ira il domandò, s’ei fosse quel nimico della Chiesa, noto per tante sanguinose battaglie; e Loria a lui: «Padre, i papi il vollero!» Da queste accoglienze si passava ai consigli. In pregio d’abbandonar la Sicilia, promesse il papa a Federigo la giovane Caterina di Courtenay, figliuola di Filippo, in titolo imperador d’Oriente;

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<p>108</p>

Raynald, Ann. ecc., 1294 §. 3.

Gio. Villani, lib. 8, cap. 5; e tutti gli altri contemporanei.

<p>109</p>

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8.

<p>110</p>

Ciò non dice alcun cronista, ma lo fa supporr il silenzio loro intorno i fatti della guerra, e il provano fuor di dubbio i seguenti diplomi del tempo:

Diploma dato di Capua a 26 ottobre ottava Ind. (1294), a Pietro de Rigibayo milite, perchè rendesse a un terrazzano di Castell’Abate once trenta, presegli per riscatto contro i patti della tregua; di che avea scritto al governo dì Napoli Federigo d’Aragona. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 34.

Diploma dato di Napoli a dì 8 novembre ottava Ind. anno 10 del regno di Carlo II, perchè, secondo la tregua, si rendesse a Zaccaria di Roberto e Bernardo di Mili da Messina, una lor nave carica di grano, spinta da fortuna di mare a Gaeta. Ibid., fog. 49.

Diploma del 23 novembre, su la restituzione della medesima Ibid., fog. 65.

Diplomi dati di Napoli a 1 e 11 dicembre ottava Ind., per l’omicidio di alcuni d’Ischia in Gaeta, del quale sollecitava la punizione Federigo, figliuolo di Pietro una volta re d’Aragona. Ibid., fog. 64 a. t. e 79 a t.

<p>111</p>

Diploma dato di Aquila a 7 settembre 1294, ottava Ind. anno 10 di Carlo II. Cotrone era tornata in fede per opera d’un Ugone, detto Rosso di Soliaco. Ratificava il re quantunque costui avea permesso a favor di quella città: dava perdono, e assicurazione de’ beni in piena forma, e anco, per quattro anni, franchigia dalle collette, taglie e sovvenzioni, dritto di legnare ne’ boschi, e altri simili favori. Nel r. archivio di Napoli, reg seg. 1294–1295, A, fog. 11.

<p>112</p>

Diploma dato d’Aquila a 14 settembre ottava Ind. (1294). Franchigia per 10 anni dalle imposte, accordata agli uomini di Castro Simero in Calabria, in mercè de’ danni sostenuti nella guerra. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 3 a t. e 4 a t.

Diploma dato di Napoli a 21 novembre ottava Ind., che fa parola de’ danni che nella presente guerra avean sostenuto gli uomini di Positano. Ibid., fog. 65.

Diploma dato di Napoli a dì 11 dicembre ottava Ind. Franchigia accordata a que’ di Scala, Sorrento e Ravello per la miseria in cui li avea gittato la presente guerra. Ibid., fog. 78 a t.

<p>113</p>

Iacopo da Varagine, parte 12, cap. 9, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

Francesco Pipino, lib. 4, cap. 10, in Muratori, ibid.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 29 a 32, in Muratori, R. I. S., tom. XI.

Gio. Villani, lib. 8, cap. 5.

<p>114</p>

Bolla di Celestino, in Lünig, Codex Ital. dipl., tom. II, Napoli e Sicilia, num. 63; e in Raynald, Ann. ccc., 1284, §. 15.

È da avvertire che il Giannone (Storia civile del regno di Napoli, lib. 21, cap. 3, addiz. dell’autore) porta questo trattato con la data del 14 novembre 1293, citando una bolla di Celestino, in Raynald, Ann. ecc., tom. XV, in appendice. Questa citazione, che mi è costata grandissima fatica al riscontrare, è inesatta. In quel luogo dei Raynald, segnato dal Giannone sulla edizione di Roma per Mascardo, che nella più corretta edizione di Lucca 1749, da me adoperata sempre nel presente lavoro, risponde al §. 15 dell’anno 1294, non si legge data degli accordi tra Giacomo e Carlo che vi sono inseriti. Forse il Giannone tolse questa data da Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 8; e pure errò, perchè quegli porta il 14 novembre come il giorno in cui si stabilì di far poscia un abboccamento tra i due re, seguito, come aggiugne il Surita, nel corso dello stesso mese.

<p>115</p>

Brevi del 1, 2, 5, 7, 8 ottobre 1294, in Raynald, Ann. ecc, 1294, §. 15.

<p>116</p>

Questo, oltrechè si scorge da’ trattati successivi, è anche provato dalla frequenza de’ messaggi che Carlo II mandava a Giacomo per trattar la pace, non solamente dopo gli accordi di Junquera, ma ancor dopo la ratificazione di papa Celestino, come il dimostrano questi documenti:

Diploma dato d’Aquila a 19 settembre ottava Ind. (1294). È il passaporto ad alcuni messaggi del re per Catalogna. Nel r. archivio di Napoli, reg. seg. 1294–1295, A, fog. 4, a t.

Diploma dato d’Aquila il 2 ottobre ottava Ind. Tre religiosi sudditi di re Carlo, Ruggier di Salerno, Rodolfo di Granville, e Roberto di Pilaneto, mandati dal papa in Francia per negozi del re. Ibid., fog. 17,, a t.

Diploma dato d’Aquila a dì 3 dello stesso mese, al podestà e consiglio di Lucca. Sovente occorrendo mandare e aver messaggi tra il re e Giacomo d’Aragona perchè s’ultimasse la pace, il re chiedeva al comune di Lucca, che nel transito non molestasse gli oratori di Giacomo. Simile diploma lo stesso dì ad Amerigo signor di Narbonne, e ad Amerigo figliuolo di lui. L’uno e l’altro, ibid., fog. 27, a t.

Diploma della stessa data e oggetto agli officiali del re di Francia. Ibid., fog. 28.

Diploma della stessa data al podestà e consiglio di Lucca, per Giuglielmo Lulio, e Bertrando d’Avellano da Barcellona, trattanti questa pace. Ibid., fog. 28.

Diploma del 10 ottobre ottava Ind. Salvocondotto e raccomandazioni per lo vescovo di Valenza e Bonifazio di Calamandrano, Magistrum Hospitalis Sancti Joannis Hierosolimitani in partibus cismarinis, messaggi del papa a Giacomo. Ibid., fog. 84, a t.

Diploma della stessa data e oggetto a Giacomo re di Malora. Ibid.

<p>117</p>

Gio. Villani, lib. 8, cap. 5 e 6,

Francesco Pipino, Chron., lib. 4, cap. 40, in Muratori, R. I. S., tom. IX.

Ferreto Vicentino, ibid., pag. 966, 967, 968, e 969.

Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1203.

Nic. Speciale, lib. 2, cap. 20.

Raynald, Ann. ecc., 1294, §§. 20 e 23, e 1295, §§. 11 a 15.

Guardai, e vidi l’ombra di colui,Che fece per viltate il gran rifiuto.Dante, Inf., c. 3.Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio,Per lo qual non temesti torre a ’nganno,La bella donna, e di poi farne strazio? Inf., c. 19.

E comento di Benvenuto da Imola, che nota in questo luogo le stesse tradizioni istoriche degli altri contemporanei da me citati.

<p>118</p>

Surita, Ann. d’Aragona, lib. 5, cap. 9.

<p>119</p>

Diplomi inseriti nell’Anonymi chron. sic. in di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 163, 168.