La guerra del Vespro Siciliano vol. 2. Amari Michele
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Venne Federigo in Sicilia appena fuor di fanciullo; quivi prestantissimo divenne, non meno all’armeggiare e in ogni esercizio di guerra, che negli studi delle lettere, allora in molto onore appo noi, de’ quali ebbe tal vaghezza, che poetava ei medesimo in lingua romanza, e amico fu dell’Alighieri, pria che lo sdegnoso spirito ghibellino lo sfatasse come dappoco. Ma brioso di gioventù, bello e gagliardo della persona, pronto d’ingegno, di piacevol tratto, a tutti grato ed umano, e fratello di re, caldamente l’amava il popolo, ch’ha femminil andare di passioni; e poteva anco da maturo consiglio augurarsen bene, al vederlo con moderazione e giustizia tener le supreme veci, e con ogni studio procacciare la prosperità del paese, che s’ebbe pace e abbondanza sotto il suo vicariato100. Necessità politica, spesso sentita come da istinto innanzi che netta si divisasse alle menti, fe’ coltivar a Federigo con maggiore studio quelle virtù, e ’l rese più caro al popolo; portandoli entrambi a sperar l’uno nell’altro; e spingendoli a tali termini, che forse niuno si proponeva dapprima. Così la parte patriottica in Sicilia rannodavasi intorno a Federigo, sperando mantenere gl’intenti della rivoluzione del vespro, senza metter giù la monarchia nè la dinastia aragonese; e ne diveniva più solida e più forte.
Contro tal volere della massa della nazione, Giacomo potea trovar sostegno in una sola fazione. Accese le guerre del vespro, gli usciti di terraferma adunaronsi sotto le nostre insegne, massime dopo la esaltazion di re Pietro; cercando fortuna, e sfogo all’odio contro casa d’Angiò, e termine, se si potesse, al doloroso lor bando. Molto con lor pratiche operaron costoro nelle guerre di Calabria; molto stigarono i Siciliani stessi, come nell’eccidio de’ prigioni a Messina nell’ottantaquattro, temendo sempre non allenasse la rivoluzione. Ma più che alla Sicilia, teneano al re, che speravano s’insignorisse della lor patria; e intanto li gratificava di feudi e ufici. In più numero ebbero simile stato in Sicilia uomini catalani e aragonesi, creature della corte, e però, al par degli usciti di Puglia, esosi a’ Siciliani, per gelosia dei premi che gli uni e gli altri usurpavano. A costoro s’univa, perchè non mancano i rinnegati giammai, qualche Siciliano. E con tal fazione servile pensò Giacomo di mercatare la tradigione della Sicilia; a chi profferendo di redintegrarle ne’ beni lasciati in Puglia, senza perdita de’ nuovi acquisti in Sicilia; a chi minacciando lo spogliamente di sue sostante in Ispagna; tutti adescando con promesse, carezze, e inique speranze sotto sante parole. Chi ha appreso il nome di Giovanni di Procida su le novelle istoriche che il danno autor del vespro, maraviglierà a vederlo primeggiare in questa fazione e tener pratiche con lo stesso re di Napoli, s’ignora se di voler di Giacomo, o senza. Ma oltre le parole de’ nostri istorici, ond’ei si scorge pochi anni appresso scopertamente sorto contro i patriotti siciliani e Federigo, e oltre i documenti della restituzion de’ suoi beni nel reame di Napoli, pattuita espressamente tra Giacomo e Carlo II101, avvi, monumento di vergogna al suo nome, uno spaccio di Carlo al siniscalco di Provenza, dato il venti marzo milledugentonovantatrè, perchè libero mandasse a corte di Napoli il siciliano Pietro di Salerno, inviato a Carlo dal Procida, e fatto prigione in Marsiglia102. Cimentato quel gran nome con le forze che ha in oggi l’istoria, sen dileguano i vanti della prima congiura: gli resta la sola feccia di questa seconda contro la Sicilia.
Entrando il novantadue, re Carlo e ’l papa mandarono oratore a Giacomo, Bonifacio di Calamandrano, maestro degli Spedalieri gerosolimitani di qua dal mare103, famoso in arme e assai destro ne’ maneggi di stato. Col quale il figliuol di re Pietro, discepolo di Procida, temporeggiò104 per la sopravvenuta morte del papa; rispondendo, che per essergli i Siciliani compagni nei dritti politici, non soggetti impotenti, ad essi ne riferirebbe: e in vero pensò che, non assentito da loro, rimarrebbe in carte ogni accordo. Inviava dunque a tentar gli animi Gilberto Cruyllas, cavalier catalano, che approdato in Messina il due aprile del novantatrè, conturbò d’ansietà dolorosa tutti i Siciliani. Vagamente spargeasi, divisato pace con Francia e re Carlo, e di riaver la grazia della Chiesa; ma spiegavan queste scure e compilate parole la disarmata flotta, i mercenari licenziati senza pure sgravar le collette, sopra ogni altro, gli stormi di frati stranieri che, chiudendo gli occhi i governanti, svolazzavan sinistri per tutta l’isola, a spiare, novellare, cercare i penetrali delle coscienze, ingerirsi appo nobili e cittadini. Ondechè adunato al venir di Gilberto un parlamento, apparve manifesto il voler della nazione. Pochi vollero assentire; negaron la pace i migliori, com’evidente magagna: e si deliberò che ambasciadori s’inviassero a intender espresso l’animo del re. Furon trascelti a nome di tutto il sicilian popolo, tre Messinesi, Federigo Rosso e Pandolfo di Falcone cavalieri, e Ruggiero Geremia giurisperito, e tre Palermitani, Giovanni di Caltagirone e Ugone Talach cavalieri, e Tommaso Guglielmo. In Barcellona appresentaronsi a Giacomo.
Il quale fe’ loro lieta e famigliare accoglienza, condottili nelle più segrete sue stanze: e parlava, esser cresciuto tra i Siciliani; da loro aver tolto pensieri, costumi, usanze; pensassero s’altro potea bramare che il ben del paese; ed ecco che non da principe, ma come un altro cittadino, con essi triterebbe il negozio, divisato a onore ed util comune. E gli ambasciadori, non presi alle blandizie del re, si guardavan l’un l’altro. Ma il Falcone, accorto e bel parlatore, venne alle prese. Giustizia, dissegli, e verità che l’è compagna, voglionsi nel trattar le sorti de’ popoli: e dolce è ad ogni uomo la parola di pace; ma grossolana favola assai questa, che Roma e casa d’Angiò, dopo dodici anni d’oltraggi, di paure, di sangue, or lasciasser di queto la Sicilia. I sospetti poi toccò di que’ provvedimenti del governo regio in Sicilia; l’aperta frode del profferire all’infante Federigo l’uficio di senator di Roma, per trarlo dall’isola. Nè sperasse il re ferma pace in Aragona, in prezzo de consegnar legato mani e pie’ un generoso popolo; nè sperasse cansar da infamia il suo nome. Se pure, ei ripigliò, il gravava questo combattuto regno, perchè non lasciarlo provveder a sè da sè stesso, dando la corona a Federigo, non per dritto di successione, ma per elezion del popolo, lietissimo auspicio a chi unquemai la Sicilia reggesse? E se tremassero Giacomo e Federigo e tutti i reali d’Aragona, chiamerebbero i Siciliani un altro Federigo, rampollo della casa di Svevia; troverebbero i più disperati partiti, pria che abbassar le aquile dianzi agli abborriti gigli105: e se Iddio non benedicesse le armi loro, affranti alfine e debellati, vibrerebbero gli ultimi colpi ne’ petti de’ propri figliuoli e delle donne; sè stessi con quelle care vittime scaglierebbero nelle fiamme delle città. Ma Giacomo non se ne mosse. Lodò i legati di zelo; lodò i suoi propri maggiori di fede ai popoli: ei, nato di quel sangue, non che non abbandonar la Sicilia, combatterebbe per lei finchè gli restasse spirito di vita106. Con questo focoso parlare accomiatolli: e non andò guari che di novembre, abboccatosi tra Junquera e Paniças con re Carlo, fermò i patti, a sè più avvantaggiosi, verso la Sicilia più rei, che que’ d’Alfonso, maladetti da lui medesimo, tre anni prima. Tennersi in segreto grandissimo;
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Queste occulte cagioni, che trascinarono Giacomo divenuto re d’Aragona ad abbandonare o tradir la Sicilia collegandosi co’ suoi nimici, si ritraggono qua e là da tutte le autorità citate nel presente capitolo; e massime dal Surita, Ann. d’Aragona, lib. V, cap. 1 a 10.
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Bart. de Neocastro, cap. 118.
Alle parole di questo istorico do piena fede quanto all’ottimo governo di Federigo luogotenente, perch’egli avea interesse a mostrarsi giusto e zelante del ben pubblico; e che il fosse stato, il provano ancora il fatto del popolo che lo esaltò al trono, e i suoi medesimi atti nei primi tempi del regno. Non mi è parso ricordar la lapide di Girgenti del 1293, pubblicata dal Testa, op. cit., docum. 4, ove Federigo è chiamato
Per le poesie di Federigo l’Aragonese si vegga il Quadrio, Storia e ragione d’ogni poesia, correggendolo solo in questo, che attribuisce tai versi a Federigo III di Sicilia detto il Semplice, non a Federigo II. Veggasi ancora il docum. XLIV.
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Veggasi un diploma di Carlo II, dato di Napoli il 29 settembre 1300, pubblicato dal Buscemi, Vita di Giovanni di Procida, docum. 8, cavato dal r. archivio di Napoli, nel quale si legge per Giovanni di Procida:
102
Diploma del 20 marzo 1293, dal r. archivio di Napoli, registro dì Carlo II, segnato 1290, A, fog. 164, citato ne’ Discorti di D. Ferrante della Marra, Napoli, 1641, pag. 155.
Sì può sospettare che non ad altro effetto fossero stati mandati in Sicilia, sotto specie di consultare con Giovanni di Procida per gravi lor malattie, quasi mancando al tutto i medici nel reame di Napoli, Gualtiero Caracciolo e Manfredo Tomacello, come si scorge da’ diplomi del medesimo archivio, citati dal Marra nello stesso luogo.
Duolmi non aver potuto nè pubblicare nè leggere per tenore il detto importantissimo diploma del 20 marzo 1293, perchè quel registro fu distrutto in una delle sommosse che recaron tanto guasto agli archivi pubblici di Napoli. Per altro non è da dubitare della esattezza della citazione, quando se ne trovano fedelissime mille e mille altre del Marra, e io stesso studiando que’ registri, ho veduto una infinità di diplomi segnati certo da lui, perchè toccavano uomini della propria famiglia o d’altre affini. Costui, che avrebbe potuto fabbricare una base saldissima alle istorie della alla patria, durò sì penosa fatica per tesser la genealogia di tutte le famiglie nobili imparentate con la propria!
Danno argomento di somiglianti pratiche in Sicilia nel 1294 altri diplomi, l’uno dato d’Aquila a 3 ottobre ottava Ind. anno 10 di Carlo II, ch’è salvocondotto per quaranta di ad Arnaldo de Mairata, almugavero catalano, venuto testè di Sicilia, e disposto a far ritorno, pro certis suis negotiis; e l’altro dato di Napoli a 16 novembre ottava Ind. salvocondotto al frate Rinaldo de Poncio, prior degli Spedalieri in S. Eufemia, per recarsi in Sicilia. Nel r. archivio di Napoli, reg. 1294–1295, A, fog. 28 a t. e 54 a t.
103
L’ufficio di costui nell’ordine Gerosolimitano, ch’è stato argomento di dubbio tra i nostri istorici, si legge precisamente nel diploma del 10 ottobre 1294, citato in questo medesimo capitolo, pag. 62, in nota.
104
Bart. de Neocastro, cap. 114.
Nic. Speciale, lib. 2, cap. 20, 24.
Montaner, cap. 181.
Un diploma di Carlo di Valois negli archivi del reame di Francia, J. 587,18, dato d’aprile 1293, annunzia che si dovea fare un abboccamento tra i legati di Carlo II, Filippo il Bello e Giacomo di Maiorca, con que’ dei tre fratelli Giacomo, Federigo, e Pietro; e promette rinunziare alla concessione del reame d’Aragona, se fosse mestieri per la pace.
105
Così leggiamo nel Neocastro, dal quale è tolta tutta la diceria del Falcone, ch’ei forse udì raccontare dall’oratore medesimo.
106
Bart. de Neocastro, cap. 124.
La più parte de’ nostri istorici, non escluso il Testa, confondendo questa con l’altra ambasceria del 1295, ne portano una sola, mettendo insieme i nomi degli oratori dell’una e dell’altra. Non attendon essi che il Neocastro assegna a questa ambasceria la data del 1293, e riporta che Giacomo negasse il trattato; che lo Speciale e i diplomi mostran l’altra seguita d’ottobre 1295, e che il re confessasse il trattato: nè che son diversi i nomi degli oratori. Ad Accorgersi dell’errore sarebbe ancora bastato il riflettere su le parole del Neocastro, dalle quali si vede espresso ch’egli scrivea durante ancora il regno di Giacomo in Sicilia; quando ognun sa che esso ebbe fine con la seconda ambasceria, e che questo istorico ci abbandona appunto alla prima risposta del re, senza parlare di Celestino V, nè di Bonifazio VIII, nè degli altri uomini o fatti che precedettero il trattato d’Anagni. Però sono evidentemente diverse le due legazioni.