La plebe, parte II. Bersezio Vittorio

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La plebe, parte II - Bersezio Vittorio

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la messa, – una messa alla sfuggiasca – una volta per settimana! Ma alla predica ed alla benedizione ed ai vespri non vi si vede; ma alla Via crucis non vi si vede; ma alle quarant'ore non vi si vede; ma – che è peggio – al confessionale non vi si vede.

      – Ho tanto da fare! Balbettò sommessamente Paolina. Quattro bambini a cui accudire. Mio marito non è mai a casa. Come lasciarli soli?..

      – Eh! chi ha la volontà d'una cosa trova tempo, mezzo ed occasione par farla: e Dio aiuta chi lo adora come vuole la nostra Santa Madre Chiesa. Voi vi astenete dalle pratiche della divozione per accudire, voi dite, alla famiglia. Oh guardate come le vi van bene le cose di questa! Credete voi che se foste proprio que' divoti cattolici che si deve sareste ancora in siffatti imbrogli? Oh che il buon Gesù e la Madonna troverebbero modo ben essi di aiutarvi.

      Nariccia si accostò al frate col suo collo torto e colle mani giunte.

      – Perdonate, padre Bonaventura, ma vi faccio osservare che l'ora passa.

      – È vero: disse il gesuita disponendosi a prendere tra mani il calice, mentre l'usuraio s'impadroniva del messale.

      – Dunque, supplicò Paolina con ansia, mi vuol Ella fare la carità che imploro? Non per me, nè per mio marito, ma pei miei figli!.. Sono innocenti loro.

      – Bene: rispose a voce sommessa il frate. Rimanete. Dopo messa udrò in confessione messer Nariccia, ed allora glie ne dirò.

      Alla povera donna parve con ciò di aver già ottenuto un sommo favore, ed aprendo il suo cuore angosciato ad un po' di speranza recossi nella chiesa ad ascoltar la messa detta da padre Bonaventura. Dopo la messa il frate, spogliatosi dei paramenti, fatte le solite preghiere, confabulato con parecchie donnaccole venute a parlargli, entrò nel confessionale, alla cui graticola stava già in ginocchio Nariccia ad aspettarlo. La confessione fu lunga come un colloquio d'affari. Paolina, prosternata sul freddo pavimento, in quella fredda atmosfera che le agghiacciava le ossa, guardava con occhio intento quel confessionale dove si trattava della sorte dei suoi e pregava con infinito ardore.

      Finalmente la confessione di Nariccia fu finita; ed egli levandosi di là andò ad inginocchiarsi alla balaustra d'una cappella vicina, vi stette cinque minuti colla faccia nascosta nelle mani, poi si alzò e facendosi dei gran crocioni sul petto, senza guardare nè a destra nè a sinistra, coi suoi occhi birci fissi alla terra si partì di chiesa.

      Paolina lo aveva seguitato col medesimo sguardo ansioso e scrutatore. Avrebbe voluto discernere dall'espressione della fisionomia di lui, dagli atti il tenore della sua risposta alla preghiera fattagli per mezzo del confessore; ma chi era capace di leggere alcuna cosa sulla faccia da impostore di quel tristo? Si voleva confortare dicendosi essere impossibile che una preghiera fatta in confessione dal confessore non fosse esaudita; ma poi tosto ricordava la durezza di cuore del padrone di casa, ricordava le ingiurie che a costui aveva dette la sera innanzi Andrea ubbriaco, e cadeva d'ogni speranza. Ad ogni modo il tempo dell'attesa era lungo e doloroso troppo all'impazienza di quella povera anima. Pensava che i figli suoi erano là ad aspettare un tozzo di pane, ad aspettare la salvezza da una parola che quei due uomini raccolti in quel confessionale pronunziassero. Il disagio fisico accresceva l'angoscia morale della infelice. A quel freddo il dolore del petto le si era accresciuto, fattasi più tormentosa la tosse. Ella sentiva delle strette, delle oppressioni alla gola, ai polmoni, al cuore, per cui le pareva tratto tratto averle da mancare compiutamente il fiato ed essa dover cascar lì come morta. E il tempo passava; e dopo Nariccia alle grate del confessionale di padre Bonaventura succedevano l'uno all'altro i penitenti, la maggior parte vecchie donne che non la finivano più.

      Ma anche codesto ebbe fine. Padre Bonaventura uscì soffiando dal confessionale coll'aria la più annoiata del mondo. Paolina gli corse dietro e lo raggiunse in sacristia.

      – Ebbene? Interrogò ella ansiosamente.

      – Ebbene ho parlato del vostro affare con messer Nariccia.

      Fece una pausa. La donna pendeva dai labbri di lui, tutta l'anima concentrata nello sguardo con cui pareva volergli leggere nel cervello la risposta che stava per dare.

      – E che cosa disse? Susurrò Paolina per sollecitare questa risposta.

      – Che non gli è possibile far nulla in vostro favore.

      Paolina lasciò cadere il capo sul petto e mandò un sospiro che pareva un singhiozzo.

      – Voi avete molti torti verso di lui. Continuava a dire il frate con accento affettato di paterna rimostranza. Egli fu molto lunganime a vostro riguardo…

      Ma la donna, che non aveva più nulla da aspettarsi, giudicò inutile perdere ancora altro tempo ad ascoltare nuovi ammonimenti del gesuita.

      – La ringrazio di cuore la stessa cosa: diss'ella con voce che sapeva di pianto. Se la pietà non ha toccato il cuore di messer Nariccia, ho pregato tanto tanto Iddio che spero mi vorrà accordare la grazia di trovare altri più generosi; e se no, Dio è lassù che ci vede, e quando il padrone di casa ci avrà cacciati a morir sulla strada, giudicherà Egli.

      E senza più aggiungere altra parola si partì di là barcollante sulle sue deboli gambe con un affanno in cuore, come Dio vel dica.

      Si recò diviata al palazzo Baldissero. La disperazione le diede coraggio di affrontare l'impertinenza dei domestici levatisi allor allora, che si stiravano nell'anticamera. Quando questi la udirono dire che voleva parlare a madamigella Virginia, la credettero matta. Ella insistette, e i lacchè la cacciarono via con brutte parole, e poco meno che a spintoni come una pezzente fastidiosa, giurando per tutti i diavoli che nemmanco a cagione d'una duchessa avrebbero fatto svegliare madamigella, la quale, stata al ballo la notte scorsa, avrebbe dormito almeno almeno fino alle dieci.

      Paolina ottenne ciò soltanto, che, quando madamigella fosse alzata, le si dicesse della sua venuta, le si dicesse ch'ella – la misera donna – aveva bisogno di parlarle o sarebbe stata precipitata.

      La infelice si trovò sotto il portone del palazzo, affranta, senza omai più un filo di speranza.

      – E come portar pane intanto ai miei figli? Si domandava essa stringendosi colle mani tremanti il capo che le ardeva.

      Si ricordò in quel punto della famiglia Benda.

      – Ah! Esclamò con un lampo di gioia negli occhi. Quelli là li troverò alzati… E la signora Teresa non mi respingerà.

      Questo pensiero ridonò alcune forze a quel corpo affralito, e Paolina riprese la sua corsa verso la lontana officina del sig. Benda, dove l'abbiamo vista arrivare.

      CAPITOLO V

      Paolina aveva semplicemente narrato la sua Odissea del mattino: le avevano risposto colle lagrime Teresa e Maria. Quest'ultima, senza lasciar pure che la misera donna formulasse le sue domande, proruppe con tutto l'ardore d'un cuor giovenile di donna commosso dalla pietà:

      – Rassicuratevi, Paolina, non affliggetevi più oltre. Noi pagheremo la pigione che dovete a quel brutto cattivo padron di casa… Non è vero mamma?.. E i vostri figliuoletti avranno ciò che loro occorre… Non è vero mamma?

      La signora Teresa non aveva il coraggio di contraddire alle parole della figliuola.

      Paolina a cui finalmente l'anima, per così dire, tornava in corpo, benediceva con trasporto di riconoscenza le generose benefattrici, e dalla loro bontà pigliava ardire a soggiungere quell'altra supplicazione, che per la sorte della sua famiglia era ancora più importante.

      – Ciò

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