La plebe, parte II. Bersezio Vittorio
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Ma v'era anche di più. Quell'avvenenza maschile non era la prima volta che le si presentava dinanzi: l'adorazione di quello sguardo profondo già più fiate ella se l'era trovata dinanzi, e senza volerlo n'era stata alquanto preoccupata la sua mente. Superbia o indifferenza, o riserbo che fosse, ella non s'era mai curata sino allora di sapere chi fosse quel discreto che fin dall'inverno precedente in ogni pubblico ritrovo, da lontano volgeva alla bellezza di lei un muto, modesto, ma pure appassionato omaggio di sguardi. Ora, ad un tratto, ecco ch'e' le veniva innanzi con un nome avvantaggiato d'una certa simpatica notorietà, col merito d'un talento, a cui ella doveva tante dolci emozioni.
– Un bel giovane, non è vero? Disse a Virginia la sua amica.
Virginia mostrò non avere udito e parve tutta intenta a contemplare l'abbigliamento d'una signora che passava.
Non se ne parlò dell'altro ed avreste detto che la nobile fanciulla non pensava più menomamente a codesto. Ma così non era. Quando la carrozza si incontrò nuovamente nella cavalcata dei giovani fra cui si trovava e davvero spiccava primo per leggiadria Francesco, Virginia vide da lontano la faccia simpatica e lo sguardo adorativo di lui, ma volse altrove senz'affettazione il suo volto e credette di potere lasciar trapassare l'elegante cavaliere, senza favorirlo altrimenti d'una occhiata; ma quando egli fu proprio all'altezza della carrozza in cui ella si trovava, fece corvettare il suo cavallo che parve inalberarsi e imbizzarrire. La compagna di Virginia mandò una lieve esclamazione; la giovane non ci potè reggere e si volse a guardare. Gli occhi loro s'incontrarono nuovamente: poi egli raccolse le briglie, eccitò cogli sproni il destriero che si slanciò avanti e passò. Fu un lampo; ma la prima impressione ricevutane senza che Virginia punto se ne accorgesse, era in lei ribadita.
– Quasi mi ha fatto paura: disse l'amica di Virginia sorridendo; ed ho avuto torto, perchè il sig. Benda è uno dei più abili cavalieri della nostra città.
Virginia non disse parola, ma dopo un momento di silenzio, domandò con indifferenza quasi sbadata:
– Tu lo conosci di molto?
– Chi? Il signor Benda?
La ragazza fece col capo un cenno affermativo.
– Mio marito lo tratta con una certa famigliarità. Egli viene qualche volta a casa nostra. Mi porta tutte le nuove composizioni che fa, e me le suona egli stesso. Se tu le udissi eseguite da lui, quelle coserelle acquistano ancora maggior valore. Sa dare loro un'espressione, un sentimento!.. È un buonissimo musico, ti assicuro… To, un giorno o l'altro, se ti piace, te lo voglio far sentire.
– Mi farai piacere; rispose tranquillamente Virginia.
Quel giorno medesimo, venuto il vespro, la nobile ragazza, rinchiusasi nel suo salottino, dove stava il gravicembalo su cui soleva studiare e da cui cercare il diletto di qualche ora della sua giornata, suonava con nuovo e maggior sentimento la romanza il Crepuscolo. La notte era mezzo caduta, e Virginia non aveva voluto alcuna luce. Regnava in quella stanza lo scuriccio d'una sera quasi invernale. Le bianche mani della ragazza correvano con tutta agevolezza sui tasti a suscitarne quella melodia ch'ella sapeva a memoria, ed una languida dolcezza, maggiore d'ogni altra volta, pareva col suono di quelle note invadere l'anima e la fantasia della leggiadra suonatrice. In mezzo alle varie e vaghe immagini che, come di solito, venivano ad aleggiare intorno a lei, una le si presentava nuova, e più precisa e più spiccata: quella d'un aitante cavaliero di aggraziate forme e sembianze, del quale parevale scorgere in quel buio la fiamma dello sguardo.
L'amica di Virginia mantenne la sua parola; ed un giorno fece in modo che nel suo salotto la nipote del marchese di Baldissero si trovò insieme col figliuolo dell'industriale Benda. Questi fu modesto, di tratti forbiti, non timido ma riserbato, e nelle indifferenti parole che scambiò con Virginia, seppe essere gentile senza volgarità nessuna. Suonò eccellentemente: poche delle sue composizioni, alcune dei grandi maestri, alle quali seppe dare sì acconcia espressione che più d'una volta Virginia sentì batterle più vivamente il cuore e inumidirsele gli occhi. Quando e' fu partito, la stessa orgogliosissima marchesa di Baldissero confessò che l'avvocato Benda era un giovane degno du meilleur monde; però soggiunse con quell'altezzoso cipiglio che le era naturale:
– Ma gli è figlio d'un petit bourgeois, un bottegaio, un fabbricante o qualche cosa di simile.
Virginia si sentì arrossire, si chinò sul pianoforte presso cui si trovava e da cui il giovane s'era alzato poco stante, e si diede a sfogliare un quaderno di musica.
– Io lo ricevo come un artista di buone maniere: disse la padrona di casa, quasi volendo scusare la presenza di quell'intruso nel suo salotto.
Una certa conoscenza si stabilì fra l'avvocato artista e la famiglia Baldissero, non tanta che permettesse al giovane di presentarsi come visitatore nelle sale del palazzo del marchese, ma tale da poter salutare le signore quando le trovasse per istrada, da parlar con esse allorchè s'incontravano in qualche pubblico convegno, da visitarle in palchetto a teatro.
Virginia e Francesco avevano parlato rare volte insieme e sempre di cose le più indifferenti; ma pure nei loro colloquii avevano avvertita una certa corrente di simpatia che li assembrava, per cui spesse volte le idee dell'uno erano quelle dell'altra, e la fanciulla soprattutto non aveva potuto a meno di notare una certa contenuta emozione che vibrava nella voce del giovane quando a lei dirigeva la parola. Francesco da canto suo non aveva potuto osservar nulla in lei che valesse a dargli l'incoraggiamento d'una menoma speranza a quella passione che oramai lo possedeva tutto e che non poteva più nascondere; ma tuttavia la gentilezza con cui la nobile donzella lo accoglieva, parevagli talvolta alquanto maggiore e più cordiale di quella ch'essa soleva usare con tutti. L'incidente intravvenuto al ballo dell'Accademia filarmonica, mercè il turbamento che le pose nell'animo, apprese alla titolata ragazza che quel giovane borghese erale più caro di quanto ella si sarebbe pensato, di quanto avrebbe voluto.
Virginia, tornata a casa, non potè trovare il menomo riposo. Alla mente non le soccorreva alcun mezzo da poter impedire il duello imminente; e lasciarlo compirsi le sembrava una gran colpa. Sapeva che, avesse anche tutto confidato allo zio, questi, colle sue idee delicatissime in punto ad onore, si sarebbe guardato bene dal muovere pure un dito per distogliere suo figlio da uno scontro stabilito, foss'egli il provocatore o il provocato. Accolse persino un momento la matta idea di scrivere essa a Francesco, pregandolo a non dar seguito alla sfida: ma poi capiva che quest'atto imprudentissimo e non conveniente in lei non avrebbe nulla rimediato, perchè il giovane non l'avrebbe di sicuro obbedita, e quando avesse ottemperato alla sua preghiera, ella sentiva che glie ne avrebbe diminuita la stima. L'oltraggio era veramente tale che un uomo non lo deve a niun modo tollerare: la si sdegnava, a questo pensiero, contro suo cugino, il quale aveva commesso atto sì villano: e si diceva che, secondo le regole di buona giustizia, a lui in un giudizio di Dio, qual era il duello, avrebbe dovuta toccare la punizione: poi tosto inorridiva di questo suo pensiero e se ne accusava come di un gravissimo fallo.
Quando, suonato perchè a lei venisse la cameriera, questa venne a dirle come e con quali parole ed aspetto Paolina erasi presentata al palazzo a domandare di lei, Virginia, secondo quello che ho già detto, sentì un impulso vivissimo a recar subito e di persona conforto a quella misera; chiamò a sè la governante che soleva accompagnarla ogni qual volta ella desiderasse uscire senza la zia (e in ciò le si lasciava una certa libertà) fece attelare la carrozza e venne, come abbiam visto, alla soffitta del proletario Andrea.
– Oh ch'Ella sia benedetta! Dicevale Paolina, prendendo fra le sue la mano inguantata della marchesina e baciandola con fervore di riconoscenza. Sì che la sua visita mi fa bene all'anima ed anco alla salute.
Poi tosto la povera donna