La plebe, parte II. Bersezio Vittorio
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Il figliuolo volle dissentire, pregò la madre di rimanersi nella camera sua e di non farne nulla; ma ogni sua parola fu inutile, Teresa pose nello scaldaletto tutta la bragia che c'era nel suo camino, spinse Francesco nella camera ove dormiva, lo sollecitò aiutandolo a spogliarsi, e non lo lasciò più, finchè non lo vide colle coltri fin sopra le orecchie.
Prima di ritirarsi, e Francesco la pregava di andare a letto ancor essa senza ritardo, ch'egli si sentiva un gran sonno, Teresa depose un bacio amorosissimo sulla fronte del figliuolo, e gli disse:
– Dormi bene; se hai bisogno di qualche cosa, suona che io sarò qui subito.
– Sì, sì, grazie; ma non avrò bisogno di nulla. Dormi bene anche tu mamma. Fra poche ore sarò guarito.
La madre uscì su queste parole.
Francesco le tenne dietro collo sguardo pieno di amore, e quando essa ebbe chiuso l'uscio alle sue spalle il giovane sorse a sedere sul letto.
– Fra poche ore: diss'egli. Chi sa che cosa sarà di me?
Stette così un poco, immobile, sovrappreso dal tristo pensiero, poi sentendosi intirizzire dal freddo della notte, si riscosse, saltò giù dal letto ed acceso un lume si vestì di fretta. In quel punto rientrava la carrozza ch'egli aveva mandato a cercare dal portiere. Francesco guardò l'ora: erano le cinque meno un quarto.
– Ho più di due ore per provvedere alle mie cose: diss'egli.
Sedette alla sua scrivania e scrisse due lettere, una per suo padre, l'altra per la madre. S'interruppe assai volte nell'opera sotto l'assalto d'una profonda emozione. Chiese loro con calda supplicazione perdono del dolore che avrebbe cagionato, se egli fosse stato soccombente nel duello a cui stava per recarsi; il pensiero di questo dolore essergli amarissimo, disse, ed avrebbe egli in quel punto dato qualunque cosa per loro poterlo risparmiare, ma al triste passo essere indotto da ineluttabile necessità, a cui senza disdoro non avrebbe potuto sottrarsi: villanamente insultato da un prepotente, sarebbe stato indegno d'esser loro figliuolo, di portare il nome onorato di suo padre, se non avesse propulsato l'iniquo oltraggio. Nella lotta a cui stava per recarsi e cui certo avrebbero condannato i sentimenti religiosi di sua madre, evidentemente lo assisteva la ragione, e Iddio pietoso non l'avrebbe abbandonato.
Quando ebbe finite queste lettere rimase alquanto col capo reclinato e chiuso fra le palme delle mani, i gomiti appoggiati alla tavola. Una maggior tranquillità entrò in lui. Pensò che al cimento nè la sua mano, nè la sua voce non dovevano tremare; bagnò d'acqua fresca un tovagliolo e si inumidì la fronte e le tempia; si atteggiò innanzi allo specchio per provarci l'aspetto e le mosse che avrebbe dovuto avere in presenza dell'avversario; impugnò una pistola e tolse di mira l'immagine sua entro la lucida lastra, per avvezzarsi a guardar freddamente la bocca nera dell'arma rivolta minacciosamente verso la sua testa; poi sorrise di sè, gettò la pistola sul letto e passeggiò un poco per la stanza con piede riguardoso, a capo chino. Ad un punto gli parve udire un lieve rumore nelle camere vicine; il suo cuore gli fece indovinare ratto che cosa fosse; fu d'un balzo presso il lume e lo spense; poi stette immobile, trattenendo il fiato, ma col cuore che gli batteva. Era la buona madre inquieta, che veniva con passo leggiero ad origliare all'uscio se il diletto figliuolo dormisse. Teresa socchiuse la porta ed ascoltò attentamente un istante; non vide nulla nell'oscurità della stanza, non udì il menomo rumore; esitò un momento, vogliosa di accostarsi al letto del figliuolo e vederlo, timorosa di turbargli il sonno salutare; vinse il timore e la si allontanò chetamente come la era venuta.
– Quanto mi ama! Esclamò Francesco, giungendo le mani con un fervido accesso di riconoscenza. Povera madre mia!
Pochi momenti dopo il giovane vestì il pastrano, si pose in testa il cappello e pigliate le due lettere che aveva scritte, discese con passo guardingo nel cortile, passando per la medesima scaletta per cui era salito. Nell'officina, nelle scuderie, nella casa, tutto era ancora chiuso, scuro e muto. Francesco picchiò all'uscio della loggia del portiere e chiamò a voce contenuta ma vibrata:
– Bastiano!
Il grosso uomo che abbiamo già veduto non tardò a rispondere all'appello, e venne fuori avvolto nel suo pastranone.
– Fa il piacere, gli disse il giovane, apri lo sportello. Ci devono venire due amici a cercarmi e non voglio che abbiano a picchiare.
Bastiano obbedì senza la menoma osservazione, quantunque trovasse strana la venuta di visitatori sì mattinieri. Francesco fece avvivare il fuoco nella stanza del portinaio e sedutosi presso il camino stette aspettando. Il portiere notò la preoccupazione del giovane, ma non osò interrogarlo. Il sospetto però che qualche cosa di disaggradevole fosse avvenuto o minacciasse di avvenire al padroncino lo assalse. Suonavano le sette all'orologio dell'officina, quando una carrozza si fermò sul viale dirimpetto al portone della casa, e tosto dopo il dottor Quercia entrava nell'andito dove Bastiano, mandatovi dal padrone, stava col lume in mano per guidarlo nel camerino in cui Francesco aspettava.
Non ebbero ad attendere gran tempo che giunse correndo Giovanni Selva.
– Andiamo: disse Francesco alzandosi con risoluzione.
– Ho pensato di venire colla mia carrozza: disse Gian-Luigi; e credo che la ci può servire.
– Avete fatto benissimo.
I tre giovani uscirono. Bastiano era lì sul passo dell'uscio, col lume in mano, irrequieto, dubbioso, con ansiosa curiosità. Francesco, passandogli innanzi, prese a quel brav'uomo una mano e glie la strinse.
– Addio Bastiano: gli disse con accento in cui c'era più affetto che non nelle occasioni ordinarie.
Il vecchio e fidato servitore sentì un certo rimescolo, che gli parve un funesto presentimento. Volle parlare e non seppe che cosa dire; volle trattenere il padroncino e non osò; stette lì intento a guardarlo mentre attraversava le file degli alberi del viale e saliva coi suoi due compagni nella carrozza. Questa era già partita, e il buon Bastiano era ancora là piantato.
– Mah! Diss'egli poi togliendosi da quel luogo e crollando la testa: tutto ciò mi ha un'aria grandemente sospetta.
Una pallida luce incominciava a diffondersi pel grigiastro orizzonte e su per la campagna coperta di neve: questa cadeva tuttavia a lenti fiocchi e tutto era silenzioso come la tomba.
L'ombra d'un uomo, che nessuno aveva scorto, si staccò da una pianta dietro cui si nascondeva; fece alcuni passi sollecitamente per il viale, e mandò un fischio: due altre ombre si staccarono dai tronchi degli alberi, e vennero a raggiungere quella prima; queste due ultime avevano la montura di carabiniere.
– Al cimitero: disse vibratamente, con accento di comando, il primo di questi individui colà appiattati: correte.
I carabinieri non aspettarono altro, e presero la corsa nella direzione medesima per cui s'era avviata la carrozza.
E diffatti queste medesime parole – Al cimitero – aveva dette il dottor Quercia al cocchiere, salendo l'ultimo nel suo legno; poichè infatti colà era stato fissato il ritrovo ed il luogo pel duello che doveva aver luogo quella mattina fra il marchesino di Baldissero e l'avvocato Francesco Benda.
Quest'ultimo, in carrozza, affidò a Giovanni Selva le lettere che aveva preparate per suo padre e sua madre, da consegnarsi loro quando a lui toccasse la peggior sorte; Luigi Quercia diede alcune istruzioni ed ammonimenti a Francesco intorno al modo di governarsi sul terreno: e venti minuti non erano trascorsi da che avevano abbandonato la casa Benda, quando le grigie muraglie del Campo