La plebe, parte II. Bersezio Vittorio

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La plebe, parte II - Bersezio Vittorio

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type="note">1; ora, nel momento in cui timorosa, tremante per emozione e per freddo, gli occhi rossi, ella si presentava sulla soglia della stanza della signora Teresa, la notte che era trammezzata, pareva aver condotto sul capo a quella infelice un doppio cumulo di anni, di stenti, di dolori e di fisica infermità. Paolina si fermò un istante come per prender fiato; il petto le ansimava penosamente; la sua tosse profonda suonava più cupa e più dolorosa che mai ad udirsi; le sue povere vesti, sottili pel rigore di quella stagione, le stavano serrate addosso sulle gracili membra, immollate com'erano dalla neve piovutale su per la lunga tratta di cammino che la misera aveva fatto a venir sin lì. Girò essa gli occhi intorno quasi smarrita; volle parlare per dare un saluto, ma dalle tremole labbra allividite non uscì che un balbettìo di debol voce; esitò, fece uno sforzo ancora per avanzarsi e parlare; e ruppe in pianto disperatamente.

      Teresa e Maria le furono accosto con affettuosa premura; la presero per quelle mani magre, quasi diafane, fredde come ghiaccio e la trassero vicino al fuoco; le dissero generose e soavi parole di incoraggiamento, d'interesse e di compianto.

      – Sedete qui, povera donna; e Teresa le additava la bassa seggiola, su cui stava poc'anzi ella stessa: riscaldatevi un po'… Santa Madonna della Consolata, come siete tutta fradicia!.. Lì, così: via, calmatevi; abbiate coraggio… Vi è capitata qualche disgrazia?.. Fiducia nella Provvidenza, mia cara, e rassegnazione ai voleri di Dio.

      Maria frattanto, con quella leggiadra lestezza di mosse che le era particolare, aveva riempito di caffè una delle tazze che col vassoio si trovavano tuttavia sul tavolino, ed agitando in essa il piccolo cucchiaio d'argento per farvi fondere lo zuccaro, la porgeva a Paolina, la quale invano si sforzava di frenare le lagrime ed i singhiozzi.

      – Prendete, bevete questo po' di caffè caldo: diceva la ragazza colla sua voce così dolce e simpatica; ciò vi renderà un po' di calore in corpo.

      – Grazie, grazie: balbettava la misera coi denti che le mozzicavano le parole battendo insieme. Che Dio ne le rimeriti!

      Maria s'accorse che Paolina aveva i piedi nudi entro scarpe rotte, in cui liberamente entrava da tutte parti l'umido della strada; ricordò in quel momento come suo padre mezz'ora innanzi si fosse dato sollecito pensiero di sapere s'ella era ben difesa dalla sua calzatura contro l'umido della neve, sentì intorno ai suoi piedini il caldo dei suoi stivaletti impellicciati, e non potè a meno che stabilire una specie di confronto, onde la sua anima pietosa rimase vivamente commossa; senza dire nè un nè due, fu in un salto nella sua camera, e tornò correndo con un paio di stivalini da inverno, i quali, per fortuna, essendo troppo larghi pei suoi piedi, poterono accogliere quelli abbastanza piccoli eziandio di Paolina.

      – Lasciate stare quelle orribili ciabatte: disse la buona fanciulla; e mettete questi calzari.

      La pezzente rifiutò dapprima, esitò, poi ubbidì, ringraziando commossa, e, nel vedere così buone madre e figliuola, accogliendo nel cuore un po' di speranza che avrebbe potuto conseguire il fine per cui era venuta, ed aveva insistito affine di essere introdotta presso la signora Teresa.

      Fu quest'essa che, allorquando Paolina parve un po' riconfortata dal calore della fiamma e da quello della bevanda, e la emozione di lei si fu alquanto calmata, le disse:

      – Or via, buona donna, diteci che cosa vi è capitato e che cosa possiamo fare per voi.

      Paolina stette silenziosa un momento a capo chino, quasi le mancasse il coraggio; e poi con evidente sforzo cominciò a parlare: ma noi capiremo meglio le triste condizioni di quella disgraziata, se tornando indietro d'un passo, ci rifacciamo al momento in cui, la sera innanzi, ella usciva dalla bettola di Pelone, traendo seco pur finalmente, dopo molti sforzi, il marito ubbriaco.

      CAPITOLO III

      Andrea si era lasciato condurre a casa dalla moglie, la quale ne aveva dovuto faticosamente sorreggere il passo barcollante. L'aria aperta e il freddo vento della notte avevano giovato alquanto a rischiarare all'ubbriaco la mente dai fumi del vino, e due idee le stavano innanzi precise e distinte: quella de' suoi figliuoli e della moglie che pativano, e quella dei torti ch'egli aveva verso di loro; onde barellando nel suo camminare sostenuto alla moglie, di tratto in tratto sparava una bestemmia, mandava un singhiozzo, faceva un atto di disperazione e borbottava colla lingua grossa ed impacciata:

      – I miei figli!.. Pane ai miei figli!.. Sono un miserabile!

      Così camminando, stiracchiato, a scossoni, a zigzag, fermandosi ogni tratto, in un tempo triplo di quel che sarebbe occorso, giunsero pur finalmente alla casa che abitavano, la quale, come sappiamo già, era una di quelle possedute da messer Nariccia il bigotto usuraio, e quella appunto in cui abitava egli stesso, e in cui Maurilio aveva passati quei tristi giorni che gli abbiamo udito narrare a Giovanni Selva.

      Il signor Nariccia era troppo avaro per rischiarare pur d'un lumicino l'andito e le scale della casa e approfittava dell'incuria municipale, che a quel tempo non imponeva siffatto obbligo ai padroni, per lasciar rompere il naso ai suoi inquilini finchè l'abitudine li avesse guarentiti contro tale pericolo.

      Urtando qua e là colle spalle nelle cantonate, coi piedi negli scalini, colla testa negli spigoli delle pareti, guidato, tirato, sorretto dalla moglie, Andrea era oramai pervenuto al terzo piano vociferando le più salate bestemmie di questo mondo, fra cui ricorreva sempre il ritornello: I miei figli, sono un miserabile.

      Giusto al terzo piano, l'ubbriaco inciampò, e la moglie, troppo debole per sostenerlo, non potè impedire ch'egli andasse a battere con tutto il peso della sua abbandonata persona, contro un uscio, il quale suonò come percosso da una catapulta.

      E qui dalla bocca di Andrea irritato giù una filza di bestemmie e d'imprecazioni.

      – Accidenti al padrone di casa!.. Che il diavolo si porti quel ladro avaro, sanguisuga della onesta gente, che non mette manco la miseria di un lumino su questa sua scala maledetta di questa casa del demonio che vorrei profondasse fino giù al fin fondo dell'inferno!..

      Paolina aveva bel dire: – Zitto, zitto Andrea, non dir così, vieni, andiamo su: – ed aveva bel tirarlo pel braccio; l'ubbriaco non si muoveva di un punto e gridava ancora più forte.

      Ora quell'uscio contro cui il marito di Paolina era precipitato con tanto impeto, metteva niente meno che nel quartiere abitato da Nariccia medesimo; ed ecco – vista tremenda per Paolina – aprirsi in quella l'uscio fatale e comparire il signor Nariccia in persona con una lucerna in mano.

      – Che cos'è questo chiasso? Cominciò egli a dire con tutta la severa imponenza di cui era capace. Che cos'è questa temerità di percuotere in tal modo contro l'uscio della mia abitazione? Che cosa sono queste sconcie impertinenze che andate sbraitando?

      Paolina volle dire alcune parole di scusa.

      – È inutile che cerchiate di negare; ho udito tutto, e se non fosse del debito che ho di buon cristiano di perdonare, ve la vorrei far pagare cara e salata…

      Andrea era rimasto sovraccolto al primo apparirgli del padron di casa; ma poi tosto, ripigliando quella certa famigliarità che hanno con chicchessia gli ubbriachi, diceva a sua volta:

      – Scusi… Perdoni… sa! Quello che ho detto, l'ho detto… ecco… perchè… corpo d'un accidente… gli è la verità…

      – Vieni, vieni: s'affrettava ad interrompere Paolina. Non teniamo qui dell'altro il signor Nariccia a questo freddo.

      – Lasciami stare: rispondeva Andrea, respingendo la mano della moglie: voglio parlare… voglio spiegarmi… Ecco! Qui è maledettamente scuro come in una caverna dì briganti… non fo per dire… Non ci si vede la punta del proprio naso.

      E

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