Due amori. Farina Salvatore

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Due amori - Farina Salvatore

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tutti gli uomini vedano attraverso la nebbia che oscura il tuo orizzonte. Ma oramai conviene che tu non dissimuli nulla a te stesso. Io non ti domando una confessione, perchè forse tu stesso non sapresti farmela; ma esigo dalla tua amicizia che tu getti uno sguardo scrutatore nell'anima tua. Molto spesso conoscere il male è guarirlo. Ora io ti domando: che hai tu fatto della tua vita? A diciotto anni ti colse desiderio dì viaggiare. Avresti potuto recarti nelle città popolose; la società ti sarebbe apparsa gigante in mezzo alle sue turpitudini; avresti contato le lagrime della miseria e le carrozze stemmate dell'ozio, e ti saresti sentito serrare il petto dallo sconforto. Ma dal turbine delle oscenità da trivio e degli amorazzi di gran dama, avresti forse sceverato una fanciulla modesta e povera, e l'affannoso lavoro di un operajo indigente. Increscioso del mondo in cui non avevi ancora vissuto, misantropo senza aver conosciuto gli uomini, senza ancora essere uomo tu stesso, hai visitato invece l'America meridionale e gli sbandati avanzi delle sue tribù di selvaggi. Così hai passato i più begli anni della tua vita respirando un'aria che non era la tua, ascoltando un linguaggio che tu comprendevi a stento, avvicinando uomini i quali per diversa cultura di spirito, per diversa eredità di genio, per costumi e bisogni diversi, non potevano migliorare od accrescere in alcun modo il patrimonio delle tue idee, dei tuoi sentimenti. Ritornasti al tuo paese stanco della vita, odiando vieppiù gli uomini, mentre degli uomini e della vita non hai formato un giusto concetto. La più gran parte di coloro che non devono pagare col lavoro il loro pane sono ammalati del tuo male, la noja. Se non che, mentre altri ricerca nell'ebbrezza e nel delirio dei sensi la dimenticanza, tu con più falsa logica domandi la pace alla solitudine, e frugando nel tuo cuore malato vorresti rinvenire in esso il farmaco del tuo male. Quando si è giovani, come tu sei, credilo, mio caro Raimondo, la solitudine è una compagna assai triste. Convien dare allo spirito le sue battaglie, i suoi battiti al cuore.

      La franchezza del mio linguaggio sorprese Raimondo. Parvemi allora d'essermi spinto troppo oltre nel mio dire, e temetti che egli se ne fosse offeso. Lo osservai con inquietudine; era calmo. Poco dopo si scosse, e in un balzo discese dal suo letto.

      –Che fai? gli domandai meravigliato.

      –Voglio esser teco: pranzeremo insieme, andremo ai teatri, ai caffè…

      –Ma tu sei malato. Poc'anzi avevi la febbre.

      –È un nonnulla. Quel che più importa è di uscire da questa inerzia, quel che più importa è di vivere.

      Così dicendo, Raimondo si vestiva; compresi come il tentare di distoglierlo dal suo proposito sarebbe stato in quel momento opera vana; e però mi tacqui.

      In pochi istanti egli ebbe posto termine al suo abbigliamento; mi porse il braccio ed uscimmo dalla sua camera. Giammai erami sembrato così allegro come in quel punto; nell'attraversare il suo appartamento si arrestò innanzi ad un cassetto come colto da un'improvvisa idea; e trattine due pezzi d'osso che si configgevano l'uno nell'altro, mo li porse sorridendo perchè io li esaminassi.

      –A che serve questo arnese?

      –Domandalo a Charrnà; e ti saprà dire con quanto sagrifìzio egli si sia deciso a privarsi per amor mio dell'ornamento del suo labbro. Gli indiani lo chiamano il barbotto; appena nati lo fanno passare attraverso il labbro superiore e non lo depongono più nella vita. È il distintivo del loro sesso, perocchè essi non hanno barba nè diversità di vestimenta. Comprenderai come sia facile contrarre l'abitudine di tenere il broncio, quando si porta questo giocattolo sul labbro; aggiunse scherzosamente; e come il riso diventi una cosa difficile. Ho conosciuto fra le altre la razza dei Minuani, gente severa, e melanconica come i deserti che la chiudono nel suo territorio-un buon minuano non ride mai nella sua vita; ecco gli uomini coi quali ho creduto di vivere fin ora.

      VI

      Nonostante la cura che Raimondo poneva per nasconderlo ai miei occhi, io compresi dopo alcuni giorni come il nuovo genere di vita a cui si era dato non riuscisse tuttavia a riempiere il vuoto profondo del suo cuore. Nei primi giorni egli prese parte ai nuovi piaceri con avidità; lo condussi ai teatri, alle adunanze chiassose di scapoli che da gran tempo avevo abbandonato anch'io, da per tutto ove si ride, si folleggia e si dimentica. Ma in ciò fare comprendevo io stesso l'insufficienza del mio rimedio; però pensai che il tempo avrebbe compito meglio di me l'opera che io aveva intrapreso. Stimai dunque miglior partito introdurlo in quelle poche famiglie che io conosceva e abbandonarlo poscia a sè stesso. Così feci. Ma ben tosto mi persuasi che ogni mio studio per ridonargli la sua pace era riuscito a vuoto. Quando Raimondo non ebbe più il mio eccitamento, trascurò le nuove conoscenze, e talvolta si tenne qualche giorno lontano da me senza avvisarmene secondo il consueto per mezzo di Charruà.

      Evidentemente egli temeva i miei rimproveri; ma, forse per non mostrarsi ingrato, continuava a mostrar desiderio di vedermi, e per non peccare d'inciviltà si recava di tempo in tempo presso quelle famiglie che lo avevano accolto cortesemente nelle loro sale.

      Fra le altre la contessa B. che aveva anch'essa passato parte della sua vita nell'America del Sud, s'era mostrata assai desiderosa di Raimondo. Egli vi si recava più volentieri, attratto dalla cortesia e dallo spirito della padrona di casa; ma si mostrava indifferente e freddo verso la folla di signore eleganti e d'artisti, da cui erano frequentati quei convegni notturni.

      La contessa B. era una donna sui cinquant'anni; di modi affabilissimi, e di cuore ancor giovane. A poco a poco avea posto un grande affetto a Raimondo, e se avveniva che rimanesse alcun tempo senza vederlo, ne domandava a me con molta premura.

      Naturalmente Raimondo si accorse di questo suo desiderio; e siccome egli era modesto e riconoscente a quel po' d'affetto che gli si offriva, fu tratto man mano a rendere più frequenti le sue visite. Così avvenne che capo qualche tempo le sue abitudini n'andarono affatto mutate.

      Una sera, mentre Raimondo ed io discorrevamo in un canto della sala colla contessa, vedemmo venire incontro a noi un vecchio alto della persona ed una giovinetta sui diciotto anni. La contessa corse loro incontro, strinse la mano al vecchio, e baciò sulla bocca la fanciulla. Poco stante ci presentò il generale R. e la signorina Clelia.

      Il generale era un uomo alla buona, di modi franchi e assai parco di parole. Se non avea toccato i settant'anni, certo era giù di lì; ma si conservava tuttavìa abbastanza in forze, sebbene la sua alta statura lo obbligasse a tenere il capo alquanto incurvato.

      La signorina Clelia era una personcina dilicata, piuttosto pallida, con due occhioni neri e con lunghe treccie di capelli castani che lasciava scendere sulle spalle. Nell'insieme una creatura come se ne vedono tante; non affatto bella, e tuttavia ricca di doti fisiche; e se le falliva quella consapevolezza dei proprii meriti che è sì presso alla civetteria e che molti ricercano nella donna, spirava in compenso dai suoi occhi una candida espressione di ingenuità, e dall'abbandono delle sue membra e dalle sue movenze, una certa mollezza che non è difetto, e una tal quale indolenza piacevole. Clelia era una creatura buona. Parlava senza affettazione, senza guardarsi all'intorno per farsi ascoltare; sorrideva spesso; a quell'età il sorriso viene dal cuore; e se taluno le dirigeva la parola, sapeva starsene in ascolto-tutto ciò non è tanto comune come può parere. La sua parola era facile e chiara; diceva tutto il bene che sapeva-quando si mormorava di qualcheduno, taceva; se lo poteva senz'offendere, mutava discorso-palesava i suoi gusti senza tenersene-era presto fatto a dirli, i suoi gusti, ed infinito ad enumerarli: amava tutto. Tale mi parve dopo alcuni giorni ch'io l'ebbi in pratica la signorina Clelia.

      Se non che io non seppi alla prima indovinare la sua condizione. Il vecchio generale la chiamava talvolta: "figliuola mia;" ma il più spesso: "signorina;" però se io poteva argomentarne del suo affetto paterno, era ben altra cosa della sua qualità dì padre.

      Ma in una radunanza d'amici di casa l'è assolutamente impossibile di tener per gran tempo la tua curiosità, senza che trovi cento disposti a pagartene. I ciarlieri e i curiosi sono le razze più numerose che pullulino sulla terra. E che Domine Iddio ti scampi

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