Due amori. Farina Salvatore

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Due amori - Farina Salvatore

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tra il nuovo e il vecchio mondo, ma che non appartiene a nessuno dei due. Voi dovete ricordarvi di me, perchè so d'avervi raccontato le mie peregrinazioni fra le tribù indiane.

      "In quel racconto v'ha un mistero, qualche cosa che non era nei miei viaggi, ma traboccava nel mio cuore e voleva corrermi alle labbra.

      "Sappiatelo adunque: io vi amo.

      "Non vi offendete di questa confessione e della ruvida franchezza con cui la faccio.

      "Non deridete il mio orgoglio. Io ho fatto di tutto per vincere me stesso, per soffocare una passione senza speranza.

      "So di non essere avvenente, di non potermi appigliare a nulla per accarezzare l'ambizioso sogno d'essere amato da voi.

      "E so pure che l'anima vostra è bella, che il vostro corpo è leggiadro, che l'abisso dei vostri occhi è profondo.

      "Tuttavia io vi amo.

      "Ho scongiurato con ogni mezzo questa sciagura; ho pianto ed imprecato; ma il mio culto s'è ingrandito ogni giorno nel mio seno, e la stessa lontananza volontariamente impostami, ha ravvivato nel mio pensiero la vostra immagine.

      "Una volta posto il piede nell'abisso, vi si è attirati da un fascino misterioso. Ah! voi non sapete quanto l'abisso dei vostri occhi è profondo.

      "La mia colpa adunque, se pure io ne ebbi mai una, è quella di avervi veduta- ma anche il non vedervi non era in mie mani.

      "Vedervi e non amarvi-guardare il sole e non esserne illuminati. – Impossibile, impossibile.

      "Che potrebbe egli fare un uomo? Distoglierne le pupille… tant'è: il calore che gli sferzerebbe la fronte risusciterebbe nelle sue tenebre la luce.

      "Così io potrei rinunziare a voi, e non vedervi, e non parlarvi; ma non potrei rinunziare alla memoria di voi; non potrei rinunziare al mio amore, a questo amore che è cosa mia, perchè io l'ho nutrito nel mio seno e mi dà vita.

      "Potreste fuggirmi-io non cercherei di raggiungervi; dappertutto ove io andassi, mi seguireste egualmente. Io vi ho collocata nel più lucido orizzonte della mia intelligenza; colà mi sorridete e vi sorrido, mi amate e vi amo, siete mia.

      "Cotesta vi parrà audacia; fors'anco impertinenza- pensatelo pure inesorabilmente, ma pensate pure che è amore. "Vi ho dato il mio segreto. Se voi sorriderete del mio orgoglio, o compiangerete la mia sciagura, non so. Forse l'una cosa e l'altra insieme; poi che il mio orgoglio è grande, ma non meno grande la mia sciagura, e forse più grande la bontà del vostro cuore…

      "Quest'ultima idea ravviva in me una speranza.

      "Più vasta dei deserti, sconfinata come la distesa dei mari, inesplorata come le vie degli orizzonti, è la speranza. L'anima dell'uomo si fa gigante in essa.

      "Io spero.

      "Un vostro cenno, e m'avrete schiavo; un vostro cenno, ed io fuggirò dal vostro sguardo; mi ricaccierò in quelle inospiti terre che mi han visto per tanti anni.

      "Porterò fra quei selvaggi raminghi l'immagine mesta e bella di colei che ha fatto battere la prima volta il mio cuore, e ne popolerò la mia solitudine.

      "Ma avrò il coraggio d'affrontare la mia sorte, poichè l'anima dell'uomo sa essere gagliarda nel dolore."

      Raimondo riuscì a far pervenire questa lettera a Clelia in quello stesso giorno. Com'ebbe compiuto questa impresa, si sentì venir meno tutte le forze: almanaccò sulla riuscita, e ne trasse motivo di sconforto. Parevagli d'aver troppo oltre spinto la sua baldanza, ed ora d'aver pallidamente dipinto il suo stato, ed ora d'essersi reso ridicolo. Per due giorni fu nuovo strazio. Al terzo giorno ricevette per posta questa lettera di Clelia.

      "Signor Raimondo.

      "Apprezzo i sentimenti che vi hanno inspirato la vostra lettera. Voi siete un uomo leale e mi parlate il linguaggio della franchezza e della modestia.

      "Non v'imiterò nella modestia; non tenterò neppure di farlo perché non saprei riuscirvi; le donne sono molto più vanitose degli uomini-e voi forse degli uomini il meno vanitoso. Ma l'esempio della vostra candidezza deve essermi scuola; io devo mostrarmi a voi quale sono, colla verità sulle labbra.

      "Non è un mistero che io vi andrò rivelando, non è neppure un segreto; ma è cosa che non si palesa che a chi ha diritto di farcene domanda-ed io penso che voi lo abbiate. Se l'affetto che voi dite di nutrire per me non è mentito, nè io vi credo capace di simulazione, è mio dovere farvi conoscere il mio passato.

      "È una storia semplice e mesta, come se ne ascoltano tante; ma forse l'animo vostro ne andrà profondamente mutato.

      "Voi, signor Raimondo, avete avuto una madre.

      "Non è egli vero che è una buona creatura la madre?

      "Si ricordano le sue carezze e i suoi baci, e i suoi dolci rimproveri che vanno ai cuore-e s'intende risuonare per lungo tempo all'orecchio l'eco d'una canzone del paese natale che la poveretta canticchiava daccanto alla culla-e pare sempre di vedere un viso dolce chino sul guanciale. Oh! la è pure una buona creatura la madre!

      "Il padre è più accigliato, più severo, ma affettuoso anch'esso. Egli ha sgridato talvolta il suo piccino; aveva una voce robusta che incuteva un po'di timore, ma quando veniva dal suo lavoro, si lasciava frugare nelle tasche. Il buon uomo le aveva riempite a bella posta di zuccherini per far felice il suo bambino. Egli avea del criterio fino il povero padre, e sapeva che in quell'età i zuccherini fanno felice.

      "Non è egli vero, signor Raimondo, che dovrebbe essere un gran dolore se ci si togliesse d'un tratto la memoria degli anni infantili, se spingendo lo sguardo nel nostro passato, noi non potessimo arrestarci sopra l'occhio sereno dei nostri poveri genitori?

      "Cotesto dolore io l'ho provato. Non conobbi mìa madre; ella morì troppo presto perchè io potessi serbarne memoria. Mi dissero però ch'era bella, ch'era giovine e poveretta, che aveva pianto tanto, e che prima di morire volle baciarmi. Io l'amo molto mia madre; la sogno sovente, ma in un modo confuso, diverso da tutto ciò che si può vedere nella vita, diverso anche da ciò che si può immaginare. Però quando mi sveglio io non serbo più la memoria di quel fantasma.

      "Di mio padre so nulla; da principio credeva che io non lo avessi mai avuto; mi assicurarono però che Iddio ne dà uno a tutte le sue creature.

      "Le mie memorie più remote risalgono a quattordici anni fa. Io aveva allora quattro anni; mi ricorda d'una bella signora, assai bella, che io chiamavo mamma, e mi baciava e mi regalava dei confetti perchè io la chiamassi con quel nome.

      "Tutti gli altri la salutavano con rispetto-io sola sedeva sulle sue ginocchia.

      "Altra persona di cui serbo memoria, era un uomo abbastanza vecchio, ma assai robusto, almeno per quanto pareami allora, il quale mi sollevava di terra con una mano sola e mi reggeva seduta sulla palma e mi portava di stanza in stanza fra le risa mie e i paurosi rimbrotti della mamma.

      "Quest'uomo è oggi il generale R., quella donna era la marchesa sua moglie.

      "Venendo più in giù, trovo la memoria d'una notte mesta. Non erano ancora due ore da che io ero stata messa a letto, che un affaccendarsi di servi per le camere mi destò all'improvviso. La mamma era stata colta da paralisi; si agitava convulsivamente sul suo letto senza parlare-i medici tentennavano il capo sfiduciati. Dopo alcune ore di spasimo, la poveretta morì.

      "Così rimasi sola col generale.

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