Due amori. Farina Salvatore

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Due amori - Farina Salvatore

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allo specchio una parola di conforto.

      "Il risultato di questo supplizio tu lo conosci: ho cessato di frequentare la casa ove avrei incontrato quella creatura. Ho cessato di veder te, perchè non avrei resistito alla tentazione di chiedertene notizie. E d'altra parte tu avresti indovinato il mio segreto; ora poi che io mi lusingava di guarire dal mio delirio, parevami che ove qualcuno, fosse anche il migliore dei miei amici, avesse potuto guardare nel mistero del mio povero cuore, io sarei stato impotente a sanarlo.

      "Non ti dirò quanto io abbia sofferto fino ad oggi: non ti dirò quanto io soffra tuttavia; nè come il primo soffio di questa fatale passione venisse a ridestare nel mio seno gli entusiasmi dei primi anni; nè come poche ore dopo soltanto si tramutasse in fuoco insaziabile. È tutt'oggi ch'io mi torturo senza pietà; vorrei piangere molto, e non trovo una lagrima. Non so perchè; ma in mezzo a questa disperanza senza fine, odo talvolta come delle voci che mi ripetono accenti d'amore, e promesse ineffabili; e tutto ciò mi suona improntato a melanconia, come una gioja severa che si accompagni col dolore, ed abbia la stessa sorgente del pianto.

      "Ho dei momenti in cui sembro un fanciullo, e vorrei levar dal sepolcro la mia povera nonna per appoggiare sulle sue ginocchìa il mio capo e sognare ad occhi aperti.

      "Altre volte inferocisco; passeggio a gran passi, smaniando, e per disfogare il dispetto, tengo il broncio a Charruà. – Povero Charruà! Sono alcune notti ch'egli veglia al mio capezzale. Gli ho detto di dormire, ma non ha voluto darmi retta; ho dovuto mandarlo via dalla mia camera; ma quando credeva ch'io dormissi, ritornava sulle punte dei piedi, mi guardava con tenerezza e si allontanava crollando il capo senza far più rumore d'uno spettro.

      "Eccoti il mio segreto. Giudica tu mio buon amico se io meriti compianto o rimprovero.

      "Sarei venuto io stesso, ma ho pensato che scrivendoti avrei avuto più coraggio, ed ho scelto questo partito.

      "Lo vedi; io sono stremato di forze, il mio animo è fiacco. Perdonami. Una sola parola a Charruà, ed io verrò."

      –Farò di meglio, pensai dentro di me, andrò io stesso; e fatto cenno a Charruà che durante tutto quel tempo s'era rimasto immobile e pensieroso, uscimmo.

      X

      Raimondo non avea taciuto nulla nella sua lettera; e tuttavia il vederlo crebbemi il dolore.

      Mi ripetè il suo spasimo, i suoi dubbii, il suo timore di riuscire ingrato agli occhi di Clelia; e poi che gli uomini temono sopra ogni cosa il ridicolo e lo vedono da per tutto dove il compasso non ha portato la sua misura, io compresi che Raimondo era torturato da questo pensiero. Arrossiva di amare; col suo volto, coi suoi modi parevagli debolezza; e quando doveva pure dirla questa parola che Dio ha scolpito nel cuore delle sue creature, balbettava e mi guardava nel volto temendo che io lo canzonassi.

      Strana vicenda delle cose del mondo è questa che il vizio usurpi a quando a quando le spoglie della virtù e s'incontrino degli sciagurati che si tengano della loro abbiezione, e parlino delle loro colpe e mettano a nudo le loro sozzure con compiacenza. Ma che la virtù arrossisca di sè medesima, e per poco non discenda a domandare il mantello del vizio, questo in verità non si saprebbe comprendere. Ed io penso che se gli uomini non si frodassero a vicenda di uno spettacolo che sana molte piaghe, e sdegnassero questo mentito tributo alla colpa, il fardello dei loro dolori n'andrebbe alleggerito d'assai.

      Persuasi Raimondo a sperare, ad abbandonarsi a me. Non ci volle gran fatica; la solitudine avealo fatto arrendevole, però io posi per primo patto che egli venisse meco quella sera medesima in casa della contessa. Rifiutò sulle prime vivamente; non avrebbe osato incontrarsi subito con Clelia; ma quando io gli dissi come da una settimana ella non fosse più venuta nelle sale della contessa, allora fu un tempestare di domande, alle quali io non sapeva rispondere. Da quel punto non stette più sul diniego; senza che io insistessi più oltre, era inteso che quella sera sarebbe venuto.

      XI

      Vi andammo assai di buon'ora; io con animo lieto ed aperto alla speranza; Raimondo trepidante e dubbioso, ma tuttavia più calmo.

      Avendo in mente che essendo primo ad arrivare si sarebbe trovato in minori imbarazzi, era stato lui a farmi premura; pure quando fummo giunti, sebbene fosse assai lieve la speranza che la signorina Clelia si recasse dalla contessa, e l'ora fosse tale da toglierne ogni lusinga d'incontrarvela, poco mancò che Raimondo non se ne dolesse. E poi che egli era stato travagliato da una cotal paura d'incontrarsi con Clelia, avvenne, come è facile immaginare, che in quel punto dimenticasse il suo primo timore, e l'ansia dell'aspettazione si convertisse per lui in nuovo supplizio. Se non che, fosse caso o provvidenza, Clelia un'ora dopo entrò nelle sale accompagnata dal vecchio generale, e allora Raimondo fu da capo alla prima trepidanza.

      Se io non andai errato nel giudicare, parvemi che come Clelia vide Raimondo, si turbasse nel viso, quasi non s'attendesse d'incontrarlo; e partendo da questa prima osservazione, immaginai di vedere per tutta quella sera le traccie del turbamento sul suo volto, e ch'ella facesse del suo meglio per dissimulare.

      Comunicai il mio pensiero a Raimondo; e non è a dire se egli n'andò lieto. Da quel punto fermò in mente di volerle palesare l'animo suo, e raccolte le sue forze se le fece innanzi, la salutò e si assise al suo fianco.

      –Questa volta il selvaggio s'è fatto uomo, pensai dentro di me; e giuro che giammai mortale che avrà vissuto fino a domani potrà dirsi più felice di Raimondo.

      Non rimanendomi di meglio a fare, gironzai alcun poco per le sale. Un'ora dopo essendomi nato desiderio di vedere a qual punto si trovasse nel suo labirinto, cercai cogli occhi Raimondo. Egli era sempre vicino a Clelia e le parlava con calore… "Benissimo!" Però non avendo di meglio a fare, io continuai a gironzare per le sale.

      XII

      Dopo due ore che mi parvero eterne, le sale incominciarono a farsi deserte.

      –Ecco due creature che le avranno trovate troppo brevi; dissi abbracciando dell'occhio il gruppo appassionato di Clelia e Raimondo. L'una cosa paga l'altra. E scommetto io che essi avevano molte cose a dirsi.

      Non avevo peranco cessato di dire queste parole, che il generale s'accostò alla signorina Clelia, e questa si rizzò in piedi, e salutato cortesemente Raimondo, si allontanò. In un baleno fui d'accanto a Raimondo, che pareva essere rimasto fuori di sè; e trattolo meco, sotto il pretesto di riverire la contessa, giunsi ancora in tempo a farlo incontrare un'ultima volta con Clelia.

      –Cospetto, gli dissi quando fummo usciti, non potrai lamentarti di me, nè dire che io non mi abbia sorbita la noia in bel modo per lasciarti a tuo bell'agio.

      Se non che al malumore di Raimondo compresi come la celia non tornasse opportuna.

      Nè io so d'averlo mai visto tanto dispettoso; ma, quel che è peggio, egli era sconfortato dei fatti suoi; e chi conosce le vie più riposte per cui si giunge all'umana debolezza, pensi se questa era tortura.

      In conclusione egli se n'era stato tutta sera vicino al suo amore, e non gli aveva detto ch'egli era il suo amore; gli si era seduto al fianco, l'avea seguito per due ore come uno spettro, gli aveva parlato all'orecchio, per narrargli i suoi viaggi presso le tribù indiane, e descrivergli i costumi dei Lenguà, dei Pampà e degli Aguite queducayà.

      Non so come mi stetti dal ridere, e me ne rattenne lo spettacolo del suo dolore che non era men vivo, sebbene andasse unito al ridicolo.

      Se non che richiamandomi alla mente quel giorno, e pensando a quelle puerilità d'anima innamorata, parmi ora che soltanto il riso beffardo dei cinici potrebbe deriderle; e che in un'età in cui si è così presso alla fanciullezza

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