Due amori. Farina Salvatore

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Due amori - Farina Salvatore

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mi ricongiunsi al mio benefattore.

      "Eccovi il mio romanzo. Se devo giudicare dal concetto che io mi sono fatto di voi, non avrò a temere che sia per scemare la vostra stima a mio riguardo.

      "La vostra stima, la stima degli uomini che vi assomigliano mi basta.

      "CLELIA."

      Raimondo venne a me ebbro di gioja. Mi fe' leggere la lettera di Clelia, e mi ripetè cento volte che egli era il più felice degli uomini.

      Se non che non sì tosto fu quetato in lui il primo impulso di letizia, e il suo cuore venne in certa guisa abituandosi a quella felicità da prima insperata, che la naturale incontentabilità degli amanti risvegliò mille timori da capo, e diè vita a pretese fino a quel punto ignorate.

      E sì rifece a rileggere quella lettera da cima a fondo per rintracciarvi smaniando una parola di conforto. Indarno io tentai di ridonarlo al suo giubilo persuadendolo che l'avergli scritto, l'avergli confidato il suo passato, l'avergli detto d'apprezzare i suoi sentimenti, non poteva essere un atto di pura cortesia.

      Egli non mi contrastava in questo, s'ingarbugliava con mille parole, ma finiva per crollare la testa sconfortato. M'accorsi che aveva fatto un passo innanzi, e non contento che Clelia accettasse l'amor suo, pretendeva d'ispirargliene, anzi d'avergliene inspirato; e poi che conosceva l'assurdità delle sue pretese, soffriva per non dirlo.

      Provai a dirgli come io pensassi che già prima Clelia si fosse presa di lui, e come l'avessi vista ad arrossire quando egli era apparso nelle sale della contessa, e come avessimo parlato di lui, e Clelia avesse ascoltato assai attenta. – Di cotal guisa conobbi la verità del mio sospetto; Raimondo stesso dovette confessarmi che quella lettera gli era parsa insufficiente, che essa non gli diceva quali sentimenti avesse egli suscitato nell'animo di Clelia.

      Riconfortato dalle mie parole, ma più ancora dallo stesso bisogno che egli sentiva di speranza, afferrò una penna e scrisse a Clelia in questi termini:

      "Vi ho benedetta per il bene che mi avete fatto. La vostra confidenza ha alimentato le mie illusioni. – Io posso ancora sperare d'essere amato da voi. Così vi ripeto un'altra volta: "Volete voi esser mia?" Un solo cenno e volerò ai vostri piedi.

      "RAIMONDO."

      Clelia rispose il giorno successivo:

      "Il generale mi ha parlato di voi; stima l'indole vostra, quasi direi che vi ama. Ciò mi ha fatto piacere. Gli ho mostrato la vostra lettera, ed ha sorriso.

      "CLELIA."

      Raimondo non attese un minuto, e replicò:

      "Che il generale mi stimi, e mi ami, e sorrida delle mie lettere, è cosa lusinghiera. Ma in nome di quanto avete di più caro al mondo, ditemi: volete voi esser mia? posso io lusingarmi d'avervi inspirato una favilla sola di questa fiamma inestinguibile?

      "RAIMONDO."

      A quest'ultima lettera non ebbe risposta.

      Aspettò alcuni giorni-lo stesso silenzio. Venne a me col volto contristato.

      –Credimi, gli dissi io; va a far visita al generale.

      –A che farci? mi domandò imbroncito.

      –Credimi, va a far visita al generale.

      Quel giorno stesso Raimondo andò a far visita al generale.

      XV

      Otto giorni dopo, il mio amico era in grandi faccende. Mi chiamò a sè e mi recai nella sua abitazione. Lo trovai in mezzo ad una faraggine di mobili e di tappeti. Appena mi vide, mi venne incontro-il suo volto spirava la gioia. Raccomandò a Charruà sorvegliasse alle opere degli artefici, e mi trasse nella sua camera.

      Non ebbi tempo d'interrogarlo, che egli mi pose a parte con una parola della sua felicità: sposava Clelia.

      Pensate se n'era lieto. Aveva fatto addobbare di nuovi arazzi le camere; aveva cercato d'indovinare quanto poteva riuscire gradito ad una donna, e lo aveva accumulato con ogni cura nelle sue sale. Egli aveva ancora la testa piena di progetti; qua era una statuetta da collocare, colà un amorino, una tenda, uno specchio.

      Guardai fisso Raimondo-l'anima gli brillava nel volto; mi pareva un altro uomo.

      La gioia e il dolore ci trasformano e si contendono bizzarramente il dominio dello spirito.

      Alla sera volle lo accompagnassi dalla contessa. Da qualche giorno io l'aveva trascurata; però acconsentii volentieri.

      Clelia e il generale vennero anch'essi. Ogni mio studio fu di penetrare nell'animo di Raimondo e di vedere se la sua guarigione era sicura, e se non fosse a temersi una ricaduta nelle prime melanconie. Ma ogni mio dubbio cessò ben tosto.

      Assolutamente la felicità ci trasforma-assolutamente la felicità è nell'Amore.

      Com'ebbi così conchiuso, salutai la contessa, il generale e la signorina Clelia; strinsi la mano a Raimondo, e lusingato del buon esito della mia cura, andai a cacciarmi fra le coltri.

      Io non amavo, però dormii sonni profondi; e siccome la contentezza di Raimondo si rifletteva nel mio cuore, sognai che avevo una bella, e che la mia bella mi faceva una carezza.

      XVI

      Di quei giorni m'ammalai. Da gran tempo mi aspettavo a questo; avea preveduto il mio male, lo avea sentito serpeggiare per le vene, e mi ci ero rassegnato. Il medico ne fece carico ai nervi, ed io penso che non s'ingannasse. Sorpreso a quando a quando da tremiti improvvisi alle gambe e sentendomi ogni dì più debole, fui costretto a tenere il letto. La mia ripugnanza per quell'inerzia forzata cui era condannato mi fece parere insopportabile quel supplizio. Siccome però la mia testa era libera, e la mia intelligenza conservava la sua lucidità, a poco a poco mi abituai.

      Raimondo era venuto ogni giorno a vedermi. Un dì venne a me più lieto del solito. Tutto era pronto; fra otto giorni Clelia sarebbe stata sua. Siccome io gli presi la mano e gli sorrisi con tristezza, egli mi baciò in volto.

      –Tu interverrai alle mie nozze, mi disse con accento di fiducia.

      –Lo credi? domandai con quella ingenua speranza che è propria degli infermi.

      –Ne ho la certezza. Mi pare perfino che tu oggi stia meglio; ti trovo meno pallido.

      Non era vero che io stessi meglio, e se il mio viso non era pallido conveniva accagionarne una febbricciatola lenta che da alcuni giorni non mi abbandonava un'istante. E tuttavia io mi lasciai andare assai facilmente alle illusioni; ne aveva bisogno.

      Alla vigilia del matrimonio di Raimondo volli provare a farmi forza, e balzai da letto. Non avea mosso due passi, che mi si piegarono le ginocchia e dovetti appoggiarmi per non cadere. Il pronostico di Raimondo andò fallito: io non assistetti alle sue nozze.

      In quello stesso giorno venne il medico; trovò che io stava meglio, ma ad assicurare la guarigione consigliavami i bagni di mare. La stagione era propizia; confortavami ad affrettare; sperava il mutamento d'aria avrebbe contribuito a ridonarmi la salute.

      Ne feci parola a Raimondo e sebbene gli dolesse che ciò mi avrebbe allontanato da lui per qualche tempo, approvò l'idea del medico. Determinai adunque che non appena mi fossi potuto reggere in piedi sarei partito per Genova.

      Tre giorni dopo potei fare alcuni

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