La Macchina Per Scrivere. Andrea Lepri

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La Macchina Per Scrivere - Andrea Lepri

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e due lacrime silenziose gli scesero lungo le guance un po’ paffute. Devo lavorare, è triste dirselo ma il lavoro è l’unica cosa che mi rimane realizzò di colpo. Carpetti era magazziniere in una ditta di distribuzione di acque minerali e non amava né quel mestiere né il datore di lavoro, ma non aveva avuto molto da scegliere. Inoltre quel lavoro gli permetteva di tirare avanti, per di più, per quanto lo odiasse, adesso era l’unica cosa che gli restava per non fermarsi a pensare.

      Ora Basta, devo trovare il modo di dormire un po’ perché sono davvero distrutto. Non so se sto scrivendo una storia interessante, però in fondo sono contento. Bella o brutta che sia, non pensavo che ci sarei riuscito. Sono sicuro che quando mostrerò a Sissi il romanzo finito, mi dirà che è orgogliosa di me. Ma prima di incontrarla devo anche decidermi a darmi una bella sistemata, negli ultimi giorni mi sono lasciato andare un po’ troppo e adesso sembro proprio un disgraziato.

      UN BRUTTO RISVEGLIO

      Franco aveva amato Silvia fin dalla prima volta che l’aveva incontrata, davanti a quel banchetto di libri usati dove lavorava in attesa di laurearsi in lettere. Avevano scoperto di avere così tante cose in comune che avevano presto deciso di sposarsi, l’avevano fatto non appena lei si era laureata. Era stata Sissi a trasmettergli la passione per la lettura, era lei che lo faceva sentire vivo, che gli faceva capire di esistere per qualcosa. Era Sissi che gli aveva dato due bambini meravigliosi. Sulla scia di queste riflessioni, Franco si attardò ancora, quando si accorse che ormai era quasi mattina si decise finalmente ad andare a dormire e lo fece col sorriso sulle labbra, stringendo una foto al petto. Il risveglio però fu tutt’altro che sereno: ancora una volta, a destarlo di soprassalto era stata quella solita fitta dietro l’orecchio. La foto gli cadde a terra, il vetro si ruppe e lui imprecò. Guardando l’orologio sul comò vide che era pomeriggio inoltrato, subito dopo, un brontolio sordo del suo stomaco lo informò che aveva una fame da lupo perché ultimamente aveva ingerito soltanto alcool e fumo di sigaretta. Si riempì alla meglio la pancia con crackers e sottilette, poi andò a stendersi in terrazza ma il dolore dietro l’orecchio continuava a dargli fastidio.

      Franco continua a ondeggiare nel vuoto già da un po’, come sbadatamente. Nessuno tra gli spettatori di quell’incredibile performance osa dirselo, ma i più sono terribilmente indecisi se sperare che cada oppure che si salvi: dopotutto non capita tutti i giorni, di assistere ad un’esibizione del genere. Qualcuno ha messo il telefonino in modalità “video” e lo tiene puntato verso il balcone, col dito pronto a scattare l’istantanea dell’uomo che precipita.

      «I materassi!» grida d’un tratto il Vigile del Fuoco nella ricetrasmittente, folgorato da un’idea. «Suonate a tutti i campanelli e fate buttare dalle finestre quanti più materassi riuscite a trovare, li raccoglieremo e li ammucchieremo là sotto. Ma fate presto, la situazione è critica. Quell’uomo sta lentamente scivolando, non so quanto ancora potrà resistere senza lasciarsi andare… e muovetevi a sistemare quella dannata puleggia!»

      Poi, senza attendere la risposta dei colleghi, si volta di nuovo a guardare Franco. Non riesce a scacciare dal proprio animo incredulità e stupore, quell’uomo continua a starsene lì, appeso per una mano sola come una scimmia, incurante di tutto e di tutti.

      «Ehy tu» gli grida, ma è perfettamente consapevole che tentare di parlargli è del tutto inutile. Franco si è ormai completamente isolato in un mondo tutto suo, è come se in quel momento si trovasse comodamente seduto sul divano a guardare una partita di calcio.

      «Non mollare adesso. Avanti, metti su l’altra mano. Tieni duro altri due minuti, per favore. Due minuti soltanto, che ti costa? Ehy, sto parlando con te!» prova comunque a insistere il pompiere.

      La mano di Franco, sudata, scivola improvvisamente giù per una ventina di centimetri. La sua discesa si ferma solo quando il polso urta il corrente orizzontale della ringhiera e un “oooohhhh” ansioso sale dal cortile fino alle sue orecchie. Un rivolo di sangue tiepido gli scende lentamente lungo l’avambraccio, arrivato al gomito una goccia stilla e gli cade sulla guancia, richiamandolo improvvisamente alla realtà. Per un attimo lui guarda verso il basso e subito dopo scruta con occhi inespressivi il pompiere, che giurerebbe di aver visto un lampo di paura attraversare i suoi occhi. Come se fosse la cosa più semplice del mondo, Franco dà un colpo di reni e si issa, scavalca la ringhiera e in un attimo si trova di nuovo sul terrazzo. Il fragore di un prolungato applauso liberatorio esplode all’istante dal basso, il Vigile del Fuoco si strofina gli occhi, confuso.

      «Sei grande!» gli grida subito dopo, sconcertato. «Ora per favore non fare cazzate. Vai ad aprire la porta, i miei compagni verranno a prenderti e ti porteranno via da lì. Mi senti? Qualsiasi sia il tuo problema lo risolveremo insieme» fa per aggiungere, ma le ultime parole gli muoiono in gola perché la macchina per scrivere gli manda dritto negli occhi un riflesso così intenso da abbagliarlo. Franco entra in casa e si dirige verso la porta d’ingresso, ma giunto davanti alla macchina per scrivere si ferma. Sembra riflettere per qualche attimo, poi, anziché andare ad aprire la porta agli uomini che stavano correndo su per le scale, impila con cura un altro po’ dei fogli dattiloscritti sparsi sulla scrivania. Li raccoglie e torna sul terrazzo, come se niente fosse.

      «E ora cosa diavolo vuoi fare?» gli domanda in tono incerto il pompiere vedendo che si sta di nuovo avvicinando al parapetto. «Torna dentro, per amor di Dio! Ti ho detto che stiamo venendo a prenderti, siamo qui per aiutarti. Torna dentro… oh, maledizione! Tu sei tutto matto!» urla spazientito scalciando per la stizza, prima di riprendere a imprecare verso i colleghi che stanno ancora lavorando a quella puleggia. Intanto Franco è tornato a sedersi a cavalcioni della ringhiera, adesso scorre velocemente le pagine del romanzo e lascia cadere giù quelle che ha già letto. Un improvviso prurito al ginocchio attira la sua attenzione, si gratta e sente una crosta sotto le dita.

      E questo graffio come me lo sono fatto? si domanda, un attimo dopo gli torna a mente.

      Ricorda la fuga dall’ospedale, la vista che lo abbandonava di nuovo e l’urto contro un passante, un vetro conficcato nel ginocchio e il dolore spaventoso. Ricorda i propri occhi che cercano di mettere a fuoco, ridotti a due piccole fessure. E quell’uomo in camice bianco che si avvicina gridando ai passanti di fermarlo, e la gente curiosa che osserva tenendosi a distanza. Si è quasi arreso, l’aria che respirava è troppo poca e troppo calda, le gambe troppo pesanti. Proprio quando è sul punto di cedere vede un prato, allora alza e ricomincia a correre su quel soffice tappeto verde. Il suono di un’altra sirena lo riporta al presente, si stringe nelle spalle e riprende a leggere, sillabando.

      CAPITOLO VII (IL LICENZIAMENTO)

      «Buongiorno, signor Dini.»

      «Buongiorno? Altro che buongiorno, disgraziato! Mi hai lasciato qui da solo proprio ieri che arrivavano i fornitori, ho passato la giornata a scaricare bancali su bancali… hai la minima idea di che inferno sia stato?»

      Carpetti sapeva che il principale avrebbe certamente trovato da ridire circa la sua assenza del giorni prima, magari per sfruttarla come pretesto per togliergli qualche spicciolo dallo stipendio o per chiedergli qualche prestazione extra, ovviamente gratis. Gli venne da pensare che se stava recitando la solita parte si era preparato a dovere, non l’aveva mai visto così alterato.

      Ricordati che devi lavorare! pensò tra sé ancora una volta, poi rispose.

      «L’avevo avvisata che ieri dovevo andare dal dottore…»

      «Non me ne frega un fico secco di ciò che avevi da fare, ho dovuto prendere una persona che ti sostituisse e ho dovuto pagarla, e quei soldi li detrarrò dalla tua paga» replicò l’altro, come previsto.

      «Ma

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