Spagna. Edmondo De Amicis
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Entrando nella mia camera, domandai al cameriere chi fossero due cosi che avevo osservato fin dalla sera prima, appesi alla parete, che mostravano d'aver non so qual pretensione di passare per due ritratti. “Caramba!” mi rispose “nada menos que los hermanos Argensola,” aragonesi, nativi di Barbastro, “dos de los mas afamados poetas de España!” (Afamados per chi non lo sappia non vuol dire famelici, ma famosi.) E furono tali davvero i due fratelli Argensola, due veri gemelli letterarii, che ebbero la stessa indole, studiarono le stesse cose, scrissero nel medesimo stile, puro, sobrio, forbito, facendo argine con tutte le loro forze al torrente del cattivo gusto che cominciava ad invadere, ai loro tempi, sulla fine del secolo decimosesto, la letteratura spagnuola. L'uno morì a Napoli, segretario di Stato del Vicerè, l'altro a Tarragona, prete; e lasciarono tutti e due una fama onorata e cara, alla quale il Cervantes e il Lopez de Vega apposero lo splendido suggello della loro lode. I sonetti degli Argensola sono annoverati tra i più belli della letteratura spagnuola, per argutezza di pensiero e nobiltà di forma; e poichè ve n'è uno, di Lupercio Leonardo, che si sa a memoria da tutti e del quale i ministri citano spesso la chiusa per rispondere alle magniloquenti filippiche degli oratori della sinistra; lo metto qui colla speranza che potrà servire a qualcuno dei lettori per rimbeccare gli amici quando gli facessero rimprovero d'essersi innamorato, come il poeta, d'una donna che si dà il belletto.
«Yo os quiero confesar, don Juan, primero
Que aquel blanco y carmin de doña Elvira
No tiene de ella mas, si bien se mira,
Que el haberle costado su dinero:
Pero tambien que me confieses quiero
Que es tanta la beldad de su mentira,
Que en vano à competir con ella aspira
Belleza igual de rostro verdadero.
Mas que mucho que yo perdido ande
Por un engaño tal, pues que sabemos
Que nos engaña asi naturaleza?
Porque ese cielo azul que todos vemos
No es cielo, ni es azul: ¡làstima grande
Que no sea verdad tanta belleza!»
(Prima di tutto vi voglio confessare, o signor Giovanni, che quel bianco e carminio di donna Elvira non ha di suo che il denaro che le è costato; ma voglio che voi mi confessiate alla vostra volta esser siffatta la bellezza della sua finzione, che nessuna bellezza simile di volto vero potrebbe competere con essa. Ma che vale ch'io mi dia pensiero di tale inganno, se si sa che nello stesso modo c'inganna la natura? E infatti, quel cielo azzurro che tutti vediamo, non è nè cielo nè azzurro.... Peccato che non sia verità tanta bellezza!)
La mattina dopo mi volli procurare un piacere somigliante a quello che provava il Rousseau tenendo dietro al volo delle mosche; il piacere di errare per la città, alla ventura, fermandomi a guardare le cose più insignificanti, come si fa per la strada di casa nostra, quando si aspetta un amico. Visitati alcuni edifizi pubblici, tra i quali il palazzo della Borsa, che ha una stupenda sala formata da ventiquattro colonne, ornata ciascuna di quattro scudi coll'arma di Saragozza, sovrapposti alle quattro faccie del capitello; visitata l'antica chiesa di Santiago e il bel palazzo dell'Arcivescovado, m'andai a piantare in mezzo alla vasta ed allegra piazza della Costitucion, che divide in due il Coso, e riceve altre due delle principali strade della città; e di là presi le mosse, e bighellonai fino a mezzogiorno con un gusto infinito. Ora sostavo a guardare un ragazzo che giocava a nocíno, ora davo una capatina da curioso in un piccolo caffè da scolari, ora rallentavo il passo per sentire le ciancie di due serve a una cantonata, ora andavo a mettere il naso contro le vetrine d'un libraio, ora entravo a far ammattire una tabaccaia chiedendo dei sigari in tedesco, ora mi fermavo a intavolar conversazione con un rivenditore di fiammiferi, qui compravo un giornaletto, lì chiedevo del fuoco a un soldato, là domandavo la strada a una ragazza, e intanto ruminavo versi dell'Argensola, cominciavo sonetti faceti, canterellavo l'inno di Riego, pensavo a Firenze, al vin di Malaga, agli avvertimenti di mia madre, al Re Amedeo, alla mia borsa, a mille cose, a nessuna; e non avrei cangiato la mia sorte con quella d'un grande di Spagna.
Verso sera andai a vedere la Torre nuova, che è uno dei più curiosi monumenti di Spagna. È alta ottantaquattro metri,—quattro più della torre di Giotto,—e inchinata di quasi due metri e mezzo, tutta intera, come la torre di Pisa. Fu innalzata nel 1304; chi afferma che fu fatta così, chi crede che siasi inchinata poi; le opinioni sono diverse. È di forma ottagonale, e tutta costrutta di mattoni; ma presenta una varietà mirabile di disegno e d'ornamenti, un aspetto diverso a ogni piano, un misto grazioso di gotico e di moresco. Per entrare, dovetti andar a domandare il permesso a non so quale impiegato del Municipio, che abita là vicino; il quale, dopo aver guardato attentamente la punta dei miei stivali e il ciuffo dei miei capelli, diede le chiavi al custode, e mi disse: “Puede Usted ir.” Il custode era un vecchietto vigoroso che salì le interminabili scale con assai maggior speditezza di me. “Verá Usted,” mi diceva: “Verá Usted que magnífico golpe de vista!”—Io