Spagna. Edmondo De Amicis
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“È un fatto,” mi disse, “quasi miracoloso, e che non si crederebbe, se non fosse attestato dalla tradizione, che dal tempo antichissimo quando fu posta sul piedistallo la statua della Vergine, fino al giorno in cui viviamo, tranne la notte che la chiesa è chiusa, il santuario non rimase vuoto un momento, un momento solo, in tutto il rigore della parola. Nuestra Señora del Pilar non è mai stata sola. Nel piedistallo della statua, a furia di baci, s'è fatto un incavo nel quale può entrar la mia testa. Neanco gli Arabi non ebbero il coraggio di proibire il culto di Nuestra Señora: la cappella di San Giacomo fu sempre rispettata. È caduto molte volte il fulmine nella chiesa, accanto al santuario, e anche dentro, in mezzo alla gente affollata: ebbene, neghino le anime dannate la protezione della Madonna: non è mai sta-to col-pi-to nes-su-no! E le bombe dei Francesi? Ne hanno ben bruciati e rovinati degli edifizi; ma a cadere sulla chiesa di Nuestra Señora gli era come se cadessero sulle rocce della Serra Morena. E ai Francesi che fecero man bassa in ogni parte, gli è bastato il fegato di toccare i tesori di Nuestra Señora? Un solo generale si permise di prendere un gingillo per fare un regalo a sua moglie, offerendo in compenso alla Vergine un ricco donativo; ma sa che cosa gli è seguito? Alla prima battaglia una palla di cannone gli portò via una gamba. Non c'è barba di generale o di re che ne abbia mai imposto a Nuestra Señora. E poi è scritto lassù che questa chiesa durerà fino alla fine del mondo....” E tirò innanzi su questo tenore, fin che un prete da un angolo buio della sagrestia gli fece un cenno misterioso, e allora mi salutò e disparve.
All'uscir dalla chiesa, colla mente tutta occupata dall'immagine del solenne santuario, incontrai una lunga fila di carri carnevaleschi, preceduti da una banda musicale, accompagnati dalla folla e seguìti da un gran numero di carrozze, che andavano verso il Coso. Non ricordo d'aver mai visto testoni di cartapesta più grotteschi, più buffi, più spropositati di quelli che portavan quelle maschere; così che solo com'ero, e punto inchinevole all'allegrezza, non potei trattenermi dal ridere, come alla chiusa d'un sonetto del Fucini. Il popolo però era serio e silenzioso, e le maschere piene di gravità; si sarebbe detto che negli uni e negli altri era più forte il malinconico presentimento della quaresima che il giubilo fugace del carnevale. Vidi qualche bel visetto alle finestre; ma nessun tipo ancora di quella bellezza propriamente detta spagnuola, dalla tez oscurecida e da los negros ojos de fuego, che il Martinez della Rosa, esule a Londra, rammentava con sì caldi sospiri in mezzo a las bellezas del Norte. Passai tra due carrozze, fendetti la calca, tirandomi dietro qualche sacrato che notai subito sul mio quaderno; e traversate alla lesta due o tre stradicciuole, riuscii sulla piazza di San Salvador, davanti alla cattedrale che le dà il nome, chiamata anche la Seo, più ricca e più splendida di Nostra Donna del Pilar.
La facciata greco-romana, benchè di maestose proporzioni, e la torre alta e leggera, non preparano allo spettacolo grandioso del di dentro. Entrai, e mi trovai immerso nelle tenebre; per un istante, i confini dell'edifizio mi restaron celati; non vidi altro che qualche sprazzo di pallida luce, rotto qua e là dalle colonne e dagli archi. Poi, a poco a poco, distinsi cinque navate, divise da quattro ordini di bei pilastri gotici, i muri lontani, e la lunga serie delle cappelle laterali, e rimasi attonito. Era la prima cattedrale che corrispondeva all'immagine ch'io m'ero formato delle cattedrali spagnuole, varie, pompose, straricche. La cappella maggiore, sormontata da una vasta cupola gotica in forma di tiara, racchiude in sè sola le ricchezze d'una gran chiesa; l'altar maggior è d'alabastro, coperto di rosoni, di volute, di rabeschi; la volta ornata di statue; a destra e a sinistra, tombe ed urne di principi: in un angolo la scranna sulla quale siedevano i Re d'Aragona per ricevere la consacrazione. Il coro, che sorge in mezzo alla navata principale, è un monte di tesori. La sua cinta esteriore, nella quale sono aperte alcune piccole cappelle, presenta una incredibile varietà di statuette, di colonnine, di bassorilievi, di fregi, di pietre, da dover star là una giornata per poter dire d'aver visto qualcosa. I pilastri delle due ultime navate, e gli archi che s'incurvano sulle cappelle, sono sopraccarichi, dalla base alla volta, di statue,—alcune enormi che par reggan sulle spalle l'edifizio,—di emblemi, di sculture e d'ornamenti d'ogni forma e d'ogni grandezza. Nelle cappelle una profusione di statue, di ricchi altari, di tombe regie, di busti, di quadri, che immersi come sono in una mezza oscurità, non offrono allo sguardo che una confusione di colori, di luccichii, di forme vaghe, tra le quali l'occhio si perde, e l'immaginazione si stanca. Dopo molto correre di qua e di là, col quaderno aperto e la matita in mano, notando e disegnando, mi s'ingarbugliò la testa, stracciai i fogli rabescati, promisi a me stesso che non avrei scritto nulla di nulla, uscii dalla chiesa, e mi rimisi a girar per la città, senza veder altro, per lo spazio d'una mezz'ora, che lunghe navate oscure, e statue biancheggianti in fondo a cappelle misteriose.
V'hanno dei momenti in cui il viaggiatore più gaio e più appassionato, girando per le strade d'una città sconosciuta, viene assalito improvvisamente da un così profondo senso di noia che se potesse, per virtù d'una parola, rivolare a casa tra i suoi, colla rapidità d'un genio delle Mille e una notte, proferirebbe quella parola con uno slancio di allegrezza. Fui colto da un cotal senso nel punto che infilavo non so che stradicciuola lontana dal centro della città; e n'ebbi quasi spavento. Richiamai in fretta alla mente le immagini di Madrid, di Siviglia, di Granata, per scuotermi, per riaccendermi la curiosità, il desiderio: quelle immagini mi parvero pallide e senza vita. Mi riportai col pensiero a casa, ai giorni prima della partenza, quando avevo la febbre, e non vedevo l'ora di spiccare il volo: e quel pensiero non fece che accrescermi la tristezza. L'idea di aver a vedere ancora tante città nuove, di aver da passar tante notti negli alberghi, di avermi a trovare per tanto tempo in mezzo a gente straniera, mi scoraggiò; mi domandai come mi fossi potuto risolvere a partire; mi parve d'essermi tutt'a un tratto allontanato sterminatamente dal mio paese, d'esser in mezzo a un deserto, solo, dimenticato da tutti, mi guardai intorno, la strada era solitaria, mi prese freddo al cuore, mi vennero quasi le lacrime agli occhi:—Io non posso star qui!—dissi tra me.—Io muoio di malinconia! Voglio tornare in Italia io!—Non avevo finito di dir queste parole che poco mancò non dessi in una risata da matto; in un momento ogni cosa riprese vita e splendore ai miei occhi; pensai alle Castiglie e all'Andalusia con una sorta di gioia frenetica, e scrollando il capo in atto di pietà per quel passeggero sconforto, accesi un sigaro, e tirai via più allegro di prima.
Era il penultimo giorno di carnevale; per le strade principali, verso sera, si vedeva un via vai di maschere, di carrozze, di brigatelle di giovani, di grosse famiglie con bambini, bambinaie, e ragazze da marito, a due a due; ma nessun strepito rincrescevole, nè squarciati canti di ubbriachi, nè serra serra importuni. Di tratto in tratto, si sentiva qualche leggero colpo di gomito, ma leggero assai, da parer il cenno d'un amico che volesse dire:—Son qui,—piuttosto che l'urto d'uno sbadato; e col colpo di gomito, certi suoni di voci tanto più soavi delle grida che gettavano le saragozzane antiche dalle finestre delle case crollanti, e tanto più ardenti dell'olio bollente che versavano sugli invasori! Oh non erano più quei tempi dei quali mi parlò pochi giorni sono, a Torino, un vecchio prete saragozzano, assicurandomi di non aver ricevuto, in sette anni la confessione d'un peccato mortale!
La sera, all'albergo, trovai un capomatto di francese che credo non abbia mai avuto l'uguale sotto la cappa del cielo. Era un uomo sulla quarantina, con uno di quei visi di pasticciano che dicono:—Son qui, gabbatemi;—negoziante, da quanto mi parve, agiato, il quale era giunto poco innanzi da Barcellona, e doveva ripartire il giorno dopo per San Sebastiano. Lo trovai nella sala da pranzo, che raccontava i fatti suoi a un crocchio di viaggiatori, i quali scoppiavano dalle risa. Mi cacciai nel crocchio,