Spagna. Edmondo De Amicis
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Il custode mi lesse sul volto i pensieri che mi attraversavan la mente, e come proseguendo un discorso da me incominciato, prese ad accennarmi i punti per dove erano entrati i Francesi, e dove i cittadini avevano opposto le più gagliarde resistenze. “Non furono le bombe dei Francesi,” mi disse, “che ci fecero arrendere; noi stessi bruciavamo le case, e le facevamo saltare in aria colle mine; fu l'epidemia. Negli ultimi giorni più di quindicimila uomini dei quarantamila che difendevan la città eran negli ospedali; non si aveva più tempo per raccogliere i feriti e per sotterrare i morti; le rovine delle case erano coperte di cadaveri putrefatti che ammorbavano l'aria; un terzo degli edifizi della città eran distrutti; eppure nessuno parlava d'arrendersi; e chi ne avesse parlato, era stato innalzato apposta un patibolo in tutte le piazze, sarebbe stato ucciso; volevamo morire sulle barricate, nel fuoco, sotto i rottami delle nostre mura, piuttosto che piegare la testa. Ma quando il Palafox si trovò in punto di morte, quando si seppe che i Francesi avevano vinto in altre parti, e che non c'era più alcuna speranza, bisognò porre giù le armi. Ma i difensori di Saragozza si arresero cogli onori della guerra, e quando quella folla di soldati, di contadini, di monaci, di ragazzi, scarni, cenciosi, coperti di ferite, macchiati di sangue, sfilarono davanti all'esercito francese, i vincitori tremarono di riverenza e non ebbero cuore di rallegrarsi della vittoria! L'ultimo dei nostri contadini poteva portar la fronte più alta che il primo dei loro marescialli:—Zaragoza, e dicendo queste parole era splendido, ha escupido en la cara a Napoleon!—(Saragozza ha sputato in viso a Napoleone!)”
Io pensai, in quel momento, alla storia del Thiers, e il ricordo della narrazione ch'egli fa della presa di Saragozza mi destò un sentimento di sdegno. Non una parola generosa per la sublime ecatombe di quel povero popolo! Il loro valore, per lui, non è che fanatismo feroce, o vana manìa guerresca di contadini stanchi della vita uggiosa dei campi, e di monaci ristucchi della solitudine della cella; la loro eroica ostinazione è testardaggine; il loro amor di patria, orgoglio stolto. Essi non morivano pour cet idéal de grandeur che animava il coraggio dei soldati imperiali! Come se la libertà, la giustizia, l'onore d'un popolo, non fossero qualcosa di più grande che l'ambizione d'un Imperatore, che lo fa assalire a tradimento e lo vuol governare colla violenza!... Tramontava il sole, le torri e i campanili di Saragozza erano illuminati dagli ultimi raggi, il cielo era limpidissimo; volsi ancora uno sguardo intorno per imprimermi bene nella memoria l'aspetto della città e della campagna, e prima di voltarmi per scendere, dissi al custode che mi guardava con un'aria di benevola curiosità: “Racconti agli stranieri che verranno a visitare d'ora in avanti la torre, che un giorno, un giovane italiano, poche ore prima di partire per la Castiglia, salutando per l'ultima volta, da questo balcone, la capitale dell'Aragona, s'è scoperto il capo col sentimento del più profondo rispetto, così,—e che non potendo baciare sulla fronte, ad uno ad uno, tutti i discendenti degli eroi del 1809, ha dato un bacio al custode,”—E glielo diedi, e me lo rese, e me n'andai contento, ed egli pure, e rida chi vuole.
Con questo mi parve di poter dire che avevo visto Saragozza, e tornai all'albergo ricapitolando le mie impressioni. Mi restava però una gran voglia di fare un po' di conversazione con qualche buon saragozzano, e dopo desinare andai al caffè, dove trovai subito un capomaestro e un bottegaio, che tra un sorso e l'altro di cioccolatte, mi esposero lo stato politico della Spagna e i mezzi più efficaci
«Di portar la baracca a salvamento.»
La pensavano molto diversamente. L'uno, il bottegaio, ch'era un ometto col naso rincagnato e un grosso bernoccolo tra occhio e occhio, voleva la repubblica federale, senza transazioni, quella sera stessa, prima d'andare a letto; e metteva come condizione sine qua non per la prosperità del nuovo governo, che si fucilasse il Serrano, il Sagasta e lo Zorilla, per convincerli una volta per sempre que no se chanzea con el pueblo español, che non si scherza col popolo spagnuolo. “Y su rey de Ustedes,” concludeva volgendosi verso di me, “al re che ci han mandato loro,—mi perdoni, caro il mio Italiano, la franchezza con cui le parlo,—al loro re un biglietto di prima classe per tornarsene á la hermosa Italia, ove c'è miglior aria per i Re. Somos españoles”—perdoni, caro il mio Italiano e mi metteva una mano sul ginocchio—“somos españoles, e non vogliamo stranieri, nè cotti, nè crudi!”
“Mi pare d'aver capito il suo concetto; e lei,” domandai al capomaestro, “come crede lei che si potrebbe salvar la Spagna?”
“No hay mas que un medio!” rispose con accento solenne; “non v'è che un mezzo! Repubblica federale,—in questo sono d'accordo col mio amico,—ma con Don Amedeo presidente!”—(L'amico scrollò le spalle) “Ripeto: con Don Amedeo presidente! È il sol uomo che possa tener ritta la repubblica; non è soltanto un'opinione mia; è l'opinione di molta gente. Don Amedeo faccia intendere a suo padre che qui colla monarchia non si compiccia nulla; chiami al governo il Castelar, il Figueras, il Pi y Margal; proclami la repubblica, si faccia elegger presidente, e gridi alla Spagna:—Signori, ora comando io, e chi alza le corna, legnate! E allora avremo la vera libertà.”
Il bottegaio, il quale non credeva che la vera libertà consistesse nel pigliarsi delle legnate sulle corna, protestò; l'altro ribattè; il battibecco durò un pezzo. Si venne poi a parlare della Regina; e il capomaestro dichiarò che, sebbene fosse repubblicano, aveva per Donna Vittoria un profondo rispetto e una calda ammirazione. “Tiene mucho (molto) de aquí” disse toccandosi la fronte col dito.—“Es verdad que sabe el griego?”—(È vero che sa il greco?)
“E come!” risposi.
“Hai inteso, eh?” domandò l'altro.
“Sì,” rispose il bottegaio brontolando; “pero no se govierna à España con el griego.”
Concedeva però anche lui che, regina per regina, era a desiderarsi d'averne una dotta e savia, digna de sentarse en el trono de Isabel la Catòlica, la quale, come tutti sanno, conosceva il latino quanto un professore consumato; piuttosto che una di queste regine cervelline che non hanno il capo ad altro che alle feste ed ai favoriti. In una parola, non voleva vedere in Ispagna la casa di Savoia; ma se qualche cosa poteva piegarlo un po' in di lei favore, era il greco della Regina. Che galante repubblicano!
V'è però in codesta gente una generosità di cuore, e un vigore di animo che giustifica la loro onorevole fama. L'aragonese, in Spagna, è rispettato. Il popolo di Madrid che trincia i panni addosso agli Spagnuoli di tutte le provincie, che dà al catalano di rozzo, all'andaluso di vano, al valenziano di feroce, al galiziano di miserabile, al basco d'ignorante, tratta con un po' più di riserbo gli alteri figli d'Aragona, i quali nel secolo decimonono scrissero col proprio sangue la più gloriosa pagina della storia di Spagna. Il nome di Saragozza suona nel popolo come un grido di libertà, e nell'esercito come un grido di guerra. Ma poichè non v'è rosa senza spine, questa nobile provincia è anche un semenzaio di demagoghi inquieti, di capi di guerrillas, di tribuni, di gente di testa calda e di mano ardita, che danno un gran da fare a tutti i Governi. Il Governo deve accarezzar l'Aragona come un figliuolo ombroso e focoso, che se niente niente si picca, è muso da mandare in aria la casa.
L'entrata di re Amedeo in Saragozza, e la breve dimora che vi fece nel 1871, diedero