I Robinson italiani. Emilio Salgari

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I Robinson italiani - Emilio Salgari

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Di acciaio?...

      — Non ho questa pretesa, ma certe ossa di pesci ci serviranno a meraviglia.

      — Lo dite sul serio? — chiese Enrico.

      — Certo, incredulo marinaio. Gli abitanti nordici, gli Esquimesi per esempio, credi che abbiano degli aghi d'acciaio?... No, si servono di ossa di pesci e noi li imiteremo.

      — Ed il filo?...

      — Lo avremo dalle vele, quantunque sia certo di trovare qui degli alberi che potrebbero procurarcelo. L'arenga saccharifera produce una sostanza cotonacea che i malesi adoperano come esca e che si potrebbe filare.

      — Ma voi, signor Emilio, siete un uomo miracoloso. Sapreste procurarvi tutto anche in un'isola deserta.

      — Sì, purchè abbia degli alberi, — rispose il veneziano, ridendo. — Orsù, torniamo alla sponda. —

      Si caricarono d'una parte degli oggetti ricavati dal rottame e riguadagnarono il gruppo di durion, presso cui contavano di accamparsi finchè non trovavano un posto migliore.

      Dopo essersi un po' riposati, scesero nuovamente la sponda e riportarono il resto.

      Erano allora le quattro pomeridiane, a giudicarlo dall'altezza del sole. Essendo troppo stanchi per cominciare nuovi lavori, colla vela di gabbia che era molto grande e con pochi rami d'albero improvvisarono una comoda tenda, quindi fecero un'ampia raccolta di legne secche onde mantenere il fuoco acceso durante la notte, temendo qualche visita pericolosa da parte degli abitanti a quattro gambe della foresta. Fortunatamente avevano la possibilità di accendere quelle legne, avendo il marinaio ritrovate in una delle sue tasche l'acciarino, la pietra focaia e l'esca, che conservava in una scatola metallica assieme alla pipa, diventata, ohimè, inutile ormai, mancando il tabacco.

      Il pranzo fu molto magro quella sera, ma si accontentarono. La minuta era semplice, ma fortunatamente abbondante: granchiolini di mare arrostiti sui carboni, delle ostriche, delle frutta di durion e una sorsata d'acqua data da un'altra liana che avevano scoperta a breve distanza dalla piantagione di bambù.

      — A chi il primo quarto di guardia? — chiese Albani. — Non sarebbe prudente addormentarci tutti, non sapendo quali animali si nascondono nei boschi o quali uomini abitino quest'isola.

      — Lo farò io, — disse il marinaio.

      — Bada di non lasciar spegnere il fuoco.

      — Non abbiate timore.

      — E se scorgi qualche cosa di sospetto, chiamaci senza indugio.

      — Dormite tranquilli. —

      Il signor Emilio ed il mozzo scivolarono sotto la tenda, mentre il marinaio si sdraiava presso il fuoco colla scure a portata della mano.

       Indice

      Pareva che quella prima notte, sulle sponde di quell'isola sconosciuta, dovesse trascorrere tranquilla, poichè nessun rumore veniva dalla parte dei boschi che si estendevano in direzione della montagna, la cui massa spiccava sul fondo costellato del cielo.

      Non si udivano che i monotoni gorgoglii delle onde le quali, spinte dall'alta marea, venivano ad infrangersi dolcemente contro le scogliere e sui bassi-fondi sabbiosi.

      Il marinaio però, non del tutto rassicurato da quel silenzio, vegliava attentamente, non ignorando che nelle isole della regione chino-malese, numerosi e formidabili sono gli animali che abitano le selve e le jungle.

      Riattizzava ad ogni istante il fuoco, il solo riparo che poteva difenderlo contro una aggressione, ben poco potendo contare sull'efficacia della scure; aguzzava gli sguardi fissandoli ora verso la piantagione di bambù ed ora verso i grandi alberi e tendeva gli orecchi con profonda attenzione.

      Vegliava da due ore, quando udì, a non molta distanza, un grido rauco che rassomigliava ad un miagolìo ma infinitamente più potente di quello che emettono i gatti.

      Il marinaio s'alzò di scatto gettando all'intorno uno sguardo inquieto. Quella nota gutturale, breve, l'aveva udita ancora: era il grido della tigre.

      — Mille terremoti!... — esclamò, impallidendo. — Ecco un vicino molto pericoloso, che starebbe bene a casa di messer Belzebù!... Se si avvicina, non so se la nostra scure ed i nostri coltelli potrebbero impedirgli di divorarci!... Avessimo almeno delle lancie!... To'!... E perchè no? La cosa mi sembra possibile! —

      I suoi sguardi erano caduti sulla legna raccolta che doveva alimentare il fuoco, in mezzo alla quale aveva scorto due giovani bambù lunghi due o tre metri, canne leggiere bensì, ma d'una resistenza a tutta prova e che gl'indiani ed i giavanesi adoperano per fabbricare le aste delle loro picche.

      — Ecco quanto mi occorre per avere una buona arma superiore alla scure, — disse.

      Afferrò una di quelle canne, la spogliò delle foglie, estrasse da una tasca una funicella ed in pochi istanti legò solidamente il suo coltello all'estremità di quell'asta.

      Aveva appena terminato, quando vide uscire da una folta macchia un'ombra, la quale s'avanzava verso il fuoco con grande lentezza, mostrando due occhi che avevano dei bagliori verdastri. S'alzava, si abbassava fino a toccare col ventre la terra, poi s'arrestava come se fosse indecisa o fiutasse l'aria, poi si stirava come un gatto e agitava la sua lunga e sottile coda.

      Pareva però che non avesse molta fretta ad avvicinarsi al campo, tenuta forse in rispetto dal fuoco, il quale proiettava sulle piante vicine dei riflessi sanguigni.

      — Una tigre od un grosso gatto selvatico? — si chiese il marinaio, le cui inquietudini aumentavano. — Diavolo! La cosa diventa seria e mi pare che valga la pena di tirare le gambe ai compagni. —

      Scivolò rapidamente sotto la tenda e scosse vigorosamente Albani ed il mozzo, dicendo:

      — Presto, uscite!... Un grave pericolo ci minaccia.

      — Chi?... Cosa succede? — chiese l'ex-uomo di mare, stropicciandosi vigorosamente gli occhi.

      — Credo che si tratti d'una tigre, signore.

      — D'una tigre?... Usciamo! —

      Quando si trovarono all'aperto, videro l'animale tranquillamente accovacciato a trenta passi dal fuoco.

      Non era più possibile ingannarsi, trovandosi in piena luce: era una vera tigre; ma di razza malese, più tozza, più bassa di zampe e meno elegante di quelle reali del Bengala.

      Quelle dell'Arcipelago della Sonda hanno il pelo più lungo e più spesso, le basette meno sviluppate, i ciuffi di pelo del ventre e delle coscie sono invece meno abbondanti.

      Sono feroci al pari delle altre, ma fanno più paura, poichè hanno uno sguardo così falso, così minaccioso che fa male a vederlo, e ordinariamente tengono la lingua penzolante e la coda bassa.

      La fiera, nello scorgere quei due uomini e quel ragazzo, aveva alzata la testa emettendo un sordo brontolio che nulla di buono pronosticava, ma non si era alzata. Solamente la sua coda, che spazzava il terreno con moti convulsi, tradiva

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