I Robinson italiani. Emilio Salgari

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I Robinson italiani - Emilio Salgari

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il quale però non sembrava molto spaventato.

      — San Gennaro ci protegga, — mormorò il mozzo, battendo i denti.

      — Cosa dobbiamo fare? — chiese il marinaio, che era diventato assai pallido.

      — Restiamo tranquilli, — rispose il veneziano. — Non oserà avvicinarsi al fuoco.

      — Non ci assalirà?...

      — Non lo credo, ma non muovetevi, perchè questi animali sono coraggiosi e se credono di essere minacciati, non esitano a scagliarsi.

      — E non possediamo nemmeno un fucile a pietra!... Nemmeno una pistolaccia qualunque!... Signor Albani, bisogna trovare il modo di fabbricarci delle armi innanzi a tutto o le tigri ci mangeranno.

      — Dopo la capanna verranno le armi e vi prometto che saranno più formidabili dei fucili.

      — Ma dove le troverete!...

      — A suo tempo lo saprete e....

      — Zitto signore, — disse il mozzo, interrompendolo.

      Dalla parte della piantagione di bambù si erano udite le foglie ad agitarsi, come se un grosso animale cercasse di aprirsi il passo. La tigre aveva voltata la testa verso quelle canne giganti, poi si era alzata agitando rapidamente la coda.

      — Che un'altra tigre si avvicini? — chiese il marinaio.

      — O qualche preda? — disse il veneziano. — Sarebbe la ben venuta.

      — Per la tigre?

      — E anche per noi, poichè ci leverebbe d'attorno questo incomodo vicino. —

      Le grandi canne continuavano intanto ad agitarsi e le foglie a sussurrare, e la tigre diventava più attenta.

      Ad un tratto una grossa ombra comparve sull'orlo della piantagione e dopo una breve esitazione si diresse verso il fuoco, come se fosse attratta da una irresistibile curiosità.

      L'oscurità era troppo profonda perchè si potesse ben distinguerla, ma le sue forme rassomigliavano a quelle d'un tapiro o di un babirussa, animali molto comuni nelle isole dell'Arcipelago Chino-Malese.

      Quell'animale era già giunto a cento o centoventi passi, quando il marinaio disse: — Guardate la tigre! —

      Il felino era strisciato rapidamente e senza far rumore, dietro ad una fila di cespugli e s'avanzava verso la preda, con passo silenzioso, schiacciandosi, per così dire, contro terra.

      D'improvviso si arrestò, si raccolse su sè stesso, poi s'innalzò descrivendo una lunga parabola e piombò, con precisione matematica, sul dorso dell'animale.

      S'udì un grugnito acuto seguito dal grido gutturale e stridente della belva, poi si videro i due avversarii dibattersi alcuni istanti, quindi cadere l'uno sull'altro.

      — Morti entrambi? — chiesero il marinaio ed il mozzo, che avevano seguito con viva ansietà le fasi di quella lotta.

      — No, — rispose Albani. — La tigre sta dissanguando la preda.

      — Canaglia! — esclamò il marinaio. — Ah!... se avessi un fucile!...

      — Eccola che si rialza, — disse il mozzo.

      Infatti il formidabile felino, abbeveratosi col sangue caldo della vittima, erasi rialzato. Girò due o tre volte attorno alla preda, poi l'addentò per la nuca e malgrado fosse assai più grossa di lui, se la trascinò in mezzo alla piantagione per divorarsela con suo comodo.

      — Buona digestione, — disse il mozzo.

      — E domani avremo della carne fresca, — aggiunse Albani.

      — Che ne lasci per noi?... — chiese il marinaio.

      — Quando si sarà sfamata se ne andrà, senz'altro occuparsi degli avanzi. Sono certo di trovare domani, nella piantagione, buona parte di quel disgraziato animale. Andate a riposare ora, amici miei: comincio il mio quarto.

      — Non tornerà la tigre?...

      — Non lo credo, d'altronde in caso di pericolo vi chiamerò. —

      I due marinai si ritirarono sotto la tenda ed il veneziano si sedette presso il fuoco, dopo d'aver gettato sui tizzoni dell'altra legna.

      Il resto della notte passò senz'altri allarmi, però il signor Albani ed il mozzo udirono, in mezzo alle foreste, urla di tigri, grugniti e sibili i quali indicavano a sufficienza, come quell'isola fosse ricca di selvaggina d'ogni specie e anche di animali pericolosi.

      Urgeva quindi fabbricarsi tosto una solida capanna, per non correre il pericolo di venire assaliti o di passare le notti in continui allarmi.

      — Andiamo, amici, al lavoro — disse il veneziano, quando spuntò il sole. — Prima di sera bisogna avere un ricovero.

      — Non dimentichiamo però la carne lasciata dalla tigre, signore — disse il marinaio. — Se continuiamo a mangiare frutta, fra due settimane non potremo più reggerci in piedi.

      — Con un po' di pazienza ci procureremo tutto, Enrico. Pensa che siamo sprovvisti d'ogni cosa, che siamo i più miseri di tutti i Robinson e che dovremo cominciare dalle cose di prima necessità. Fra un mese spero di non udirti più a lamentare.

      — È lungo un mese, signore. Sapete che comincio a soffrire per la mancanza del pane?...

      — Fra poco il pane abbonderà.

      — Lo dite sul serio?...

      — Sì, ma prima dovremo costruire il forno e per ora preferisco avere una capanna.

      — Diamine! Anche il forno! Avremo da lavorare molto, prima di possedere tuttociò che è necessario alla nostra esistenza.

      — In marcia! —

      Lasciarono la tenda, armati della lancia e della scure e si diressero verso la piantagione di bambù, la quale si estendeva per un lungo tratto, costeggiando una specie di pantano che conservava ancora delle traccie di umidità.

      Quella piantagione era formata da parecchie varietà di bambù. V'erano i tuldo che sono dei più grandi della specie, che in soli trenta giorni acquistano un'altezza da quindici a diciotto metri ed una grossezza di trenta centimetri; i balcua chiamati dagl'indigeni balcas-bans, pure altissimi ma sottili; i blume chiamati anche hauer-tgiutgiuk, armati di spine ricurve e coperti di foglie assai strette; i bambù selvaggi chiamati teba-teba, storti e pure spinosi, ed infine dei bambù giganti, i più alti e più grossi di tutti, poichè toccano sovente perfino trenta metri d'altezza con una circonferenza di un metro e mezzo a due, ma che sono però i meno solidi.

      — Qui abbiamo quanto ci occorre — disse il veneziano. — Voi non vi potete immaginare quante cose utilissime si possono ricavare da queste piante.

      — Da queste canne! — esclamò il marinaio, con tono incredulo. — Tutt'al più serviranno a fare delle case.

      — T'inganni, Enrico; anzi ti dirò

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