I Robinson italiani. Emilio Salgari
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— Salgo, — rispose il ragazzo.
Il signor Emilio balzò a terra e guardò in aria. Piccolo Tonno s'arrampicava sul fianco della rupe con rapidità sorprendente e con sicurezza, tenendosi stretto agli sterpi o alle radici ed approfittando delle più lievi sporgenze e delle più piccole fessure.
In pochi istanti raggiunse felicemente la vetta della grande rupe, la quale si addossava alla spiaggia.
— Cosa vedi? — chiese il marinaio, impaziente.
— Tanti alberi e delle canne immense.
— Vi sono delle capanne? — chiese il signor Emilio.
— Non ne vedo.
— Lega la fune, poi gettala.
— Signor Albani!...
— Cosa c'è ancora?...
— Vedo delle scimmie.
— Non valgono il giupin[1] ma allo spiedo basteranno pei nostri stomachi affamati, — disse il marinaio. — Giù la fune, ragazzo mio!... —
Il mozzo legò un capo del paterazzo attorno la punta d'una roccia e gettò l'altro, il quale cadde in acqua.
— A voi, signore, — disse Enrico.
Albani afferrò la fune e si mise a salire con una lestezza, che dimostrava come quell'uomo fosse famigliarizzato cogli esercizi ginnastici, e raggiunse il mozzo il quale ammirava estatico alcuni uccelli dalle penne splendidissime, che volteggiavano attorno agli alberi.
Quella parte dell'isola, le cui sponde erano così elevate, pareva che fosse assai accidentata e che formasse le ultime pendici della montagna già scorta, la quale s'alzava a meno di un miglio dal mare.
Quel terreno saliva e scendeva in forma d'ondulazioni assai accentuate, ed era coperto da folte boscaglie, le quali poi s'arrampicavano sui fianchi del monte.
Si vedevano alberi d'ogni specie incrociare i loro rami, tanto crescevano uniti, gli uni altissimi e grossi assai, altri esili e più bassi e altri ancora nodosi e contorti, tutti coperti da piante arrampicanti che formavano dei pittoreschi festoni.
Molti uccelli di diverse specie volavano quà e là fuggendo in mezzo agli alberi più folti, mentre sulle sponde volteggiavano bande di rondini salangane e parecchi volatili acquatici.
Nessuna traccia d'abitanti si scorgeva su quella costa: non canotti, non capanne, non un fuoco o del fumo che indicassero la presenza di qualche abitante. Si vedevano invece numerose scimmie, di quelle chiamate nasi lunghi (Nasalis larvatus) dalla fisonomia comica, col naso lungo, grosso, a punta rigonfia e rossa come quella dei discepoli di Bacco e che erano occupate a saccheggiare le frutta degli alberi.
— Nessun abitante, signore? — chiese il marinaio, raggiungendo Albani.
— No, finora, — rispose questi.
— E da mettere sotto i denti, nulla?... Ho un appetito formidabile e vi assicuro che darei un anno di vita per una zuppiera di quel giupin, che papà Merlotti sapeva fare così delizioso.
— Ed io due per un piatto di maccheroni col pomodoro, — disse il mozzo.
— Per ora vi accontenterete delle frutte di questi durion, — rispose Albani, sorridendo.
— Sono buone, almeno? — chiese il marinaio.
— Le migliori e le più nutrienti di tutte, ma....
— C'è un ma?...
— Non so se saprete vincere l'odore ingrato che esalano.
— Toh!... Sono le frutta più squisite e hanno un profumo che non tutti possono affrontare!... Che specie di frutta sono adunque?
— Deliziose, ti ho detto.
— Puzzassero anche di catrame, io le manderò giù — disse il mozzo. — Ho lo stomaco vuoto e reclama la colazione molto imperiosamente.
— Seguitemi, — disse Albani. — Ecco delle frutta ben mature che sono già cadute. —
Capitolo VI I Robinson italiani
Presso un piccolo poggio, sorgeva un gruppo d'alberi altissimi, col tronco grosso assai e perfettamente liscio, coperti, ad un'altezza di sessanta o settanta piedi dal suolo, da foglie assai folte.
Ai piedi di quei colossi si vedevano delle frutta grosse come la testa d'un uomo, ma di forma oblunga, coperti da una buccia verde-giallognola, irta di punte acutissime e lunghe parecchi centimetri.
Alcune erano ancora chiuse, ma altre presentavano delle fessure dalle quali sfuggiva un odore niente affatto piacevole, poichè rassomigliava a quello esalante dai formaggi putridi e dall'aglio guasto. Attraverso però quelle spaccature si scorgeva una polpa biancastra, che pareva promettente.
— Che odore! — esclamò il marinaio, arricciando il naso e facendo una brutta smorfia. — Che quest'albero produca del formaggio di Gorgonzola un po' troppo guasto?
— O del cacio-cavallo putrido? — chiese il mozzo.
— Toh! — esclamò il veneziano. — Io vi offro delle migliori e più delicate frutta della flora malese e voi cominciate a protestare di già.
— Le vostre frutta saranno squisitissime, signore, ma tramandano un profumo da far scappare perfino i cani.
— Io invece ti dico, Enrico, che i cani addenterebbero subito e con molto piacere la polpa di queste frutta, anzi ti dirò che sono ghiottissimi, avendo il sapore più d'una sostanza animale che vegetale. Orsù, non fate gli schizzinosi. —
Il signor Albani spaccò un frutto, adoperando la scure, per non ferirsi le mani con quelle punte pericolose, ed estrasse la polpa che conteneva, facendo uscire dei grossi semi avviluppati in una pellicola.
— Inghiottisci questa polpa, — disse, offrendola al marinaio. — Se l'odore ingrato ti dà noia, turati il naso. —
Il marinaio, quantunque avesse i suoi dubbi sulla squisitezza di quelle frutta, ne mise un pezzo in bocca e, contro ogni previsione, la inghiottì avidamente.
— Ma è deliziosa! — esclamò. — Migliore della crema più delicata e più profumata delle frutta più pregiate dei nostri paesi. Mangia, mio Piccolo Tonno, mangia!... I gelati della tua Napoli la perdono nel confronto. —
Il mozzo, incoraggiato da quelle parole, si turò il naso e mandò giù.
— Chi direbbe che queste frutta così puzzolenti sono così buone! — esclamò. — Ancora, signor Emilio, ancora! —
Le frutta abbondavano e, possedendo la scure, i naufraghi non si trovavano imbarazzati ad aprirle. Abituatisi presto