Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins
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Mi risvegliai su una chaise longue il mattino seguente, con ancora addosso il vestito lungo del giorno precedente. Stessa storia, posto diverso. Ma ero disgustata da me stessa anche più del solito. Ero qui per approfondire la morte dei miei genitori e rimettermi in sesto, il che doveva comprendere darci un taglio col bere. E pensare a qualcos’altro, anziché a Nick. Sembrava che l’unica cosa che avessi fatto finora fosse prendere i miei problemi e portarli in una realtà diversa, facendo del passato il mio presente. Bel lavoro, Katie.
In un momento di panico, mi tornò alla mente la notte prima. L’e-mail di Nick. Il punch al rum. Il bar dell’hotel. Gli avevo mandato un altro messaggio? Oh, ti prego, no.
Mi fiondai in piedi, con il cuore che mi batteva in gola. L’acqua azzurra giocava con la sabbia marrone proprio nella spiaggia davanti ai miei occhi. In lontananza, due bambini piccoli giocavano con i secchielli sul bagnasciuga. Sopra di me, il sole del mattino brillava attraverso le foglie di palma e baciava il tappeto d’erba davanti al patio. La pace di questo posto mi rasserenò. Sarebbe andato tutto bene.
Trovai il cellulare vicino a me e mi misi a scorrere tra messaggi ed e-mail inviate. Nulla, grazie Signore. Ieri sera avevo mandato tutto all’aria. Ma, oggi, avrei iniziato ad indagare sul mistero della morte dei miei genitori e avrei riiniziato da zero, sul fronte personale. Dopo un paio di altre ore di sonno. Mi riaccasciai sulla mia chaise longue.
“Lah, amica, una serata da rock star,” disse la voce di una donna. Una donna praticamente davanti a me, a quanto pare.
Mi alzai di nuovo, ancora più velocemente. Riconobbi quella voce roca. Anche se il nome della donna a cui apparteneva era un mistero. Mi sforzai. Abigail? Ariel? Eva? No. Ava. Era Ava.
Finsi una risata. “Sì, che serata. Almeno ciò che ricordo.”
Mi affacciai e scrutai la chaise longue dall’altra parte del patio e, eccola, c’era Ava. Si alzò in punta di piedi e stiracchiò le braccia sopra la testa, azione che può avere conseguenze inaspettate se svolta in quel suo mini-vestitino giallo in lycra. Distolsi lo sguardo. Una volta finito, si ributtò sulla sedia, stropicciandosi gli occhi.
“Beh, immagino dovremmo iniziare a prepararci,” disse, gettando le ciglia finte sul tavolino del patio e iniziando a lavorare sull’altro occhio. “Però io voto per una tanica d’acqua e due Excedrin con delle uova strapazzate prima.”
Non avevo la minima idea di cosa stesse parlando. Provai a liberare la mente dalla nebbia della sbornia. Dovevo preoccuparmi? Avevo letto a proposito dei pirati e dei furfanti dei Caraibi. Forse era una truffatrice di qualche tipo. Potevo essenzialmente essere sua prigioniera. Era un po’ esagerato, ma possibile. Per un momento i miei neuroni stavano per ricordare qualcosa, che poi svanì.
Ava continuò a parlare. “Conosco lo chef del ristorante. Ci penserà lui.” Ava si allungò per prendere il telefono dal tavolino del patio al suo fianco.
La ascoltai ordinare nel suo dialetto locale. Nonostante fosse al telefono, continuò il suo rituale — tolse orecchini, un braccialetto e una collana — e si alzò di nuovo finita la chiamata.
“Hop hop, Katie. Ci aspettano giù alla stazione.” Si tolse il vestito in un’unica mossa veloce, rivelando le proprie impeccabili curve color caffelatte, imbrigliate in un completo intimo leopardato in raso. Le mie mani si posarono sulle mie anche sporgenti, Pippi Calzelunghe e Beyoncé. Si infilò nella mia stanza.
Rimisi la mascella al suo posto e ripensai alle sue parole. Stazione, stazione di polizia. Sì. Doveva essere questo. Alcuni frammenti di ieri sera iniziarono a tornarmi alla mente, tra i quali io che racconto ad Ava di essere qui per scoprire cos’è successo davvero ai miei genitori, e lei che chiama un qualche agente di polizia con cui era uscita o che voleva uscire con lei, qualcosa così. Sì. Era così. Mi ricordavo. Sollievo.
Si affacciò dalla portafinestra e racchiuse i suoi lunghi capelli ricci in uno chignon. “Ti dispiace se faccio la doccia per prima?”
“Tranquilla,” dissi.
Sollevò un sopracciglio. “Stai bene?”
Balzai in piedi. “Certamente. Cerchiamo di darci una mossa con le docce e finire prima che passi il servizio in camera.”
“Yah mon,” disse, scomparendo di nuovo.
Buttai la testa all’indietro con gli occhi chiusi e mi tappai il naso. Solo perché iniziavo a ricordarmi di ieri sera, non voleva dire che passare la giornata insieme fosse una buona idea. Non conoscevo nemmeno Ava. Stavo esagerando? Riportai su la testa.
Beh, lo stavo per scoprire.
Sette
Peacock Flower Resort, St. Marcos, Isole Vergini americane
18 agosto 2012
“Non riesco a credere che tu stia mollando tutto per aiutarmi,” dissi.
Ava aveva ingabbiato le sue curve in un bikini e una minigonna di jeans azzurra, entrambi miei, e si era messa una delle mie camicette facendo un nodo sopra l’ombelico. Rimase scalza.
“La migliore offerta del giorno,” disse. “Sono appena tornata sull’isola, sei mesi fa. Faccio la ballerina/cantante/attrice/morta di fame a New York, ma i miei genitori stanno invecchiando e, beh, non posso allontanarmi da St. Marcos per sempre. Ce l’ho nel sangue.” Prese in mano il telefono, si mise a cercare qualcosa fino a trovarla, poi me lo passò. Aveva aperto una sua fotografia, dove si trovava tra un uomo bianco molto più vecchio di lei e una donna dalla pelle scura, con un’età compresa fra quella di Ava e del marito. “I miei genitori,” spiegò. “Quindi capisco perché sei qui. Se qualcosa succedesse a mamma o papà, farei lo stesso.”
Evidentemente, le avevo detto tutto la sera prima.
“Siete molto belli,” dissi. “Sei l’esatta combinazione fra i due.” E le restituii il telefono.
Lo era. Ava trasudava sensualità, con la sua pelle cappuccino e i suoi ricci scuri poteva passare per ogni etnia. Italiana, egiziana, messicana, o tutte insieme. Una bella combinazione.
Tirò fuori un rossetto dalla sua minuscola borsetta e si diresse al bagno, continuando a parlare. “Yah, sono fantastici. Comunque, sono a casa, ma non c’è molto lavoro sull’isola per una laureata all’Università di New York con una specializzazione in musical di Broadway e nessun’altro tipo di competenze professionali.”
Alzai la voce per farmi sentire dall’altra stanza. “Ti capisco. Ho seguito un corso di musica all’università, prima di rinsavire. Tre anni spesi a farmi dire quanti pochi soldi avrei guadagnato come cantante.”
“Sai cantare? Amica, perché non me l’hai detto ieri sera? Avrei potuto farti salire sul palco.”
“Assolutamente no,” dissi, ridendo. “È passata una vita.”
“Non vuol dire nulla. Beh, comunque, sono contenta che tu sia qui. Questo è molto meglio che guardare Oprah con mia mamma.” Ava tornò in camera da letto e si mise a studiarmi, con un dito sulle labbra. “Il fatto è, penso tu sia una tipa a posto.”
Mi piaceva, anche se eravamo agli antipodi. E adoravo ascoltarla parlare, e stavo anche iniziando a capire meglio il suo dialetto. Yah era “sì”