Saving Grace. Pamela Fagan Hutchins
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Mi registrai e l’addetto alla reception chiamò un ragazzino gentilissimo per accompagnarmi alla mia camera. Riempì il mio bicchiere di rum prima di farmi strada. “Per non passare sete in questa lunga camminata alla stanza, signora,” disse facendomi l’occhiolino. Il suo accento era adorabile.
La mia camera era a ridosso della spiaggia, ma circondata da palme per preservarne la riservatezza.
“Molte persone famose occupano questa camera.” Mi fissava intensamente. “Dovrei forse conoscerla? È tremendamente bella, signora. È una modella?”
Scelsi di ignorare il fatto che mi aveva fatto questi commenti in procinto di lasciare la stanza, proprio quando stavo decidendo la somma che avrei dato di mancia. Dissi, “Macché, grazie,” mettendogli una banconota da venti dollari nel palmo della mano. Fece un mezzo inchino per ringraziarmi e mi augurò un “felice buon pomeriggio”.
Ispezionai l’ambiente. Ah, bene, lo studio era perfetto. Appoggiai la borsa in terra ai piedi della scrivania, il cui bordo si allineava perfettamente con quelli del mio portatile, proprio come piace a me. Controllai il telefono. Era senza batteria. Infilai la mano nella borsa del computer per cercare il caricatore e lo misi in carica. Chissà quanto tempo avevo perso aspettando di ricevere dei messaggi con il cellulare spento. Sicuramente proprio quando Nick avrebbe risposto alla mia e-mail, tra l’altro. Disfai la valigia, aspettando che il telefono si riaccendesse e connettesse.
Continuai il tour in solitaria della suite. Il sito del resort sosteneva che ci fosse una vasca grande abbastanza per due persone, ed era proprio così. Abbastanza larga da contenere me e il mio alter ego dalla lingua infuocata che beveva decisamente troppo. Delle mattonelle color terra in marmo, di diverse sfumature, trame, dimensioni, forme e fantasie riempivano il bagno. Sulla carta, la ricetta perfetta per un arredamento eccessivo, ma non lo era. Era mozzafiato.
La palette chiara del resto della suite si abbinava perfettamente con i toni naturali del bagno. Il meglio della natura portato delicatamente all’interno. I mobili e il ventilatore da tetto erano in bambù e le lenzuola rigate color avorio erano in un cotone egiziano, che sembrava avere mille fili, sotto un morbido piumone crema. Non vedevo l’ora di fiondarmi a letto e rotolarmi in quelle lenzuola, passandomi il cotone fresco sulla pelle. La maggior parte dei colori della stanza — giallo brillante, verde palma e fucsia — riprendevano piante e fiori locali.
Una portafinestra si affacciava dal bagno su un patio rivestito da piastrelle in travertino color mandorla. Il patio faceva poi spazio ad un piccolo giardino costellato di palme, che terminava con un accesso privato alla spiaggia. Oltre la spiaggia dorata si intravedeva il Mar dei Caraibi, color turchese e zaffiro. Sorrisi. Questo posto faceva per me.
Il mio iPhone si era caricato abbastanza da scaricare i dati. Lo presi in mano e mi misi a scorrere le e-mail. La mia segretaria aveva mandato qualche domanda e sia Collin che Emily mi avevano chiesto di avvisarli quando fossi arrivata. Lo feci, e mi rimisi a scorrere fra i messaggi, la maggior parte dei quali era spazzatura. E così giunsi a quello mi lasciò senza fiato: la risposta di Nick.
Misi giù il telefono fino a quando non ripresi a respirare normalmente. Asciugai i palmi sul vestito viola e ripresi in mano il cellulare. Niente di grave. Stavo bene. Il corpo della e-mail era breve:
“ok”
ok. OK!! Due lettere minuscole, una parola. Non molto a cui aggrapparmi. Avrebbe potuto cancellare l’e-mail senza leggerla. Avrebbe potuto leggerla senza rispondere. Avrebbe potuto leggerla e rispondere in modo maleducato (“ok” era maleducato?). O, avrebbe potuto leggerla e rispondere con qualcosa di incoraggiante, tipo “Ci vediamo quando torni” o “Buone vacanze”. Con la mente iniziai a ripercorrere tutti i possibili scenari che coinvolgevano Nick, un’aspirante NASCAR in un parcheggio di roulotte. Così non andava bene.
Scolai il mio punch al rum e cenai con la fetta d’ananas decorativa. Guardai dentro al minibar. Jackpot. Un’intera caraffa di punch al rum mi stava aspettando. Purtroppo, non c’era frutta. Il succo di frutta fa abbastanza bene però. Il punch al rum sarebbe stato un degno sostituto del Bloody Mary. Mi servii un bicchiere.
Nick. Quell’impassibile idiota. Dovetti sforzarmi per non rispondergli. Punch al rum. Mi sforzai più duramente. Più punch al rum. E così presi la mia decisione. Dovevo andarmene da lì. Presi la borsa, il telefono e la chiave della camera e mi diressi al bar che avevo intravisto durante il check-in.
Il bar in questione era un patio coperto in cima ad una collina con vista sulla spiaggia e sull’oceano. Mi trascinai su per gli scalini di pietra e scoprii una grande concentrazione di gente, sia davanti al bancone in mogano che ai tavoli, sparpagliati sul pavimento in ceramica. Alcune persone ballavano, una danza lenta e sensuale, sulle note della musica di un gruppo reggae che non sembrava niente male. Stavano suonando una canzone sui trentacinque gradi all’ombra. La cantante borbottava il ritornello — “Molto caldo, anche all’ o-o-o-ombra.” Mi sedetti al bancone e mi girai ad osservarli, mentre aspettavo che il barista dai rasta biondi mi servisse il mio Bloody Mary. Dopo il primo sorso, mi resi conto che così non andava bene, e ordinai del punch al rum.
“Butti via cocktail perfetto? Qual è tuo problema, amica?” Disse qualcuno, pronunciano “amica” in un modo tipo “amuica”. Ci misi un po’ a capire che era stata la cantante a parlare.
“Ho cambiato idea,” dissi.
“A meno che tu no abbia qualche strana malattia, dà me quella roba,” disse.
Le allungai il bicchiere, ignorando quanto fastidio mi desse il condividere germi con una sconosciuta. Non volevo fare la maleducata. “Ne ho bevuto un sorso,” la avvisai.
Tirò fuori la cannuccia dal bicchiere e la lanciò verso il bidone dall’altro lato del bancone. Non entrò. “Grazie. Cantare fa sete.” Mi porse la mano. “Io Ava.”
Le strinsi la mano. “Katie.”
“Mia gente loro via prima che finiamo nostro ultimo set. Problema.”
Provai a seguire, ma il suo accento spezzato non aiutava. Mi persi metà di quello che disse. Le feci pena.
“Lah, tu non mi capisci.” Buttò giù un po’ di Bloody Mary. “Ho detto che la band se n’è appena andata e non abbiamo finito il nostro ultimo set. Finiremo nei guai col proprietario,” disse con un accento impeccabile, pronunciando ogni parola perfettamente.
“Oh, wow, sì, adesso capisco.”
“Mi dispiace. Uso la parlata locale quando mi esibisco, o quando parlo con altri locali. Ma posso americanizzarmi al bisogno.”
“Americanizzarti?”
“Parlare come gli americani. È come essere bilingue. Parlare la lingua come la parlano i locali facilita le cose e fa colpo sui turisti. Fa parte dell’essere baan ya.”
“Cosa significa baan ya?”
“Tradotto, significa ‘nato qui.’ Puoi vivere a St. Marcos da quarant’anni, ma sei davvero dell’isola se sei baan ya. Come me. Ora, ti devo un drink,” disse, facendo un segnale al barista, “E con i miei amici, pago sempre i miei debiti.”
Sei
Peacock