Europa en su teatro. AAVV
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L’esito di quel Laboratorio, che aveva rispettato i canoni di un teatro sperimentale, non fu solo lo spettacolo di fine d’anno, ma fu la sua acquisizione da parte dell’UNESCO; e il gruppo di studenti con il loro professore andò per l’Italia, proponendo ai più diversi pubblici quel testo con lunghi passi in latino che ai più semplici abitanti di piccoli paesi sembrò una bella musica.
L’Ecerinis giunse anche a Viterbo (città nella quale io risiedo) e per tre sere i sessanta spettatori, tanti dovevano essere, in quell’ambiente che una volta, forse, era stata la cappella del monastero dove soggiornò per più anni Vittoria Colonna, parteciparono alla rappresentazione di un testo che i più di loro non conoscevano. Il fatto ebbe una certa risonanza, per cui, qualche mese dopo, nella primavera del 1974, mi fu proposto di intervenire nelle celebrazioni per il Settimo Centenario della morte di San Bonaventura da Bagnoregio con qualcosa di teatrale, e pensai alla messinscena di qualcosa che ci riportasse al cli-ma culturale del Medioevo. Ancora una volta d’accordo con Federico Doglio, accettai e proposi la rappresentazione delle Laudi perugine, da allestirsi nella Sala del Conclave del Palazzo dei Papi. Le idee guida della messinscena furono pressoché le stesse impiegate per l’Ecerinis; per cui, per tre sere, nel mese di ottobre, centoventi spettatori posti sul perimetro di un grande rettangolo assistettero ad un rito. Ma il fatto rilevante ai fini della nascita del «Centro Studi» fu che nel corso di quei tre giorni si svolse un pubblico dibattito tra studiosi di diverse discipline, come F. Doglio, I. Baldelli, P. Brezzi, sui contenuti culturali dei testi recitati e cantati, un dibattito a cui assistette un buon pubblico e soprattutto alcuni esponenti della politica locale. Qualche settimana dopo, la RAI chiese a un Ente locale di Viterbo di allestire la messiscena di una Lauda della Natività; richiesta che l’Ente girò a me e che io accettai, impiegando le stesse componenti, ma tralasciando ogni riferimento a un «rito», pensando, invece, ad uno spettacolo predisposto per una visione frontale come è quella di una telecamera. La cosa importante che ne seguì fu la richiesta da parte di due Enti locali (Amministrazione Provinciale e Ente Provinciale per il Turismo) di un pubblico incontro con Doglio per determinare possibili iniziative culturali; e fu in questa occasione che Doglio propose la creazione di un «Centro di Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale». Seguirono a breve le risposte positive dei due Enti pubblici interessati, gli accordi con Doglio e le più immediate iniziative per pubblicizzare il progetto. E nel giugno del 1975, mentre all’interno del grande cortile del Palazzo Albornoz, fatto costruire nel XIV secolo per ospitare il cardinale Egidio Albornoz, colui che riportò a Roma da Avignone la sede papale, si rappresentava La festa goliardica, con testi tratti dalla Commedia elegiaca, Federico Doglio annunciava la creazione del «Centro» e presentava sia gli studiosi che avrebbero fatto parte del Comitato scientifico,4 sia il tema del Primo Incontro.
Aprendo i lavori del primo Convegno, F. Doglio tra l’altro affermava:
L’ormai secolare distacco che si lamenta fra gli studiosi di teatro e gli uomini di teatro italiani, è la causa principale della debolezza della nostra tradizione teatrale, una tradizione che, dai Drammi Liturgici ai testi di Pirandello, conta innumerevoli capolavori ma non possiede un luogo, una sede autorevole per metterli in scena con quella dignità e quella continuità che appunto consentono in altri paesi, il radicarsi e il realizzarsi di una vera vita di rapporto col pubblico, quindi, di un’autentica cultura.5
Se la Scuola non contempla nei suoi Ordinamenti la conoscenza della Storia del teatro, osservava Doglio, i Teatri Stabili vengono meno ad un impegno istitutivo. E più oltre affermava:
In questo contesto ci troviamo, quindi, ad operare controcorrente, ed è una condizione stimolante per chi crede che il teatro sia, non già un trattenimento evasivo per la borghesia benestante delle città, ma un evento interpersonale di alto contenuto educativo, soprattutto nella nostra epoca, l’epoca dei mass-media tanto spesso alienanti e massificanti. Recuperare il significato dell’evento, che si realizza fra persone, unitesi per riflettere sui grandi temi dell’esistenza umana, quindi per compiere insieme un’esperienza di vita morale, civile, estetica, per conseguire comunque un acquisto interiore, questo ci sembra essere il compito assegnato al teatro drammatico nel nostro tempo.6
Al Primo Convegno, 1976, il cui tema era Dimensioni drammatiche della liturgia medioevale, parteciparono studiosi provenienti da Italia, Belgio, Francia, Germania, Svezia. Si trattava di un tema che, opportunamente scelto, dichiarava la prospettiva storica come fondamento scientifico del percorso da intraprendere e poneva nel Dramma liturgico, che muovendo dall’Italia longobarda si diffondeva nell’Europa centrale, la rinascita del Teatro.7
Ciò che dette una reale concretezza alle indubbie prospettive scientifiche fu la «verifica scenica» prodotta dalla rappresentazione. In quel caso fu Momenti liturgici del triduo sacro: Reconciliatio paenitentium; De solemni actione liturgica postmeridiana in Passione et morte Domini; Adoratio crucis secundum «Regularis Concordia»; Planctus Mariae et aliorum in die Parasceven; Depositio; Ad vigiliam Paschalem; Visitatio Sepulchri. Il rito fu celebrato dai Padri benedettini di Sant’Anselmo di Roma; ed ebbe per il pubblico il significato della partecipazione a una cerimonia religiosa, più che l’assistere a una rappresentazione.8 I testi furono raccolti in un fascicolo e distribuiti agli spettatori, fu un’operazione di reale significato culturale, che si è ripetuta per tutti i Convegni e che, dunque, ha favorito la conoscenza di opere più che rare.
Il luogo delle celebrazioni, distribuite nei giorni del Convegno, fu la Chiesa di San Sisto, una chiesa edificata in epoca romanica, distrutta da un bombardamento aereo durante la Seconda guerra mondiale e ricostruita così com’era. La scelta di questo luogo fu molto interessante, perché significò una stretta connessione con il tessuto sociale e culturale di riferimento, ovvero quello del pieno Medioevo. Infatti, per il Secondo Convegno, 1977, Il contributo dei Giullari alla drammaturgia delle origini, il luogo prescelto per la rappresentazione fu piazza San Lorenzo, antistante il Duomo e il Palazzo papale.
La piazza come luogo della rievocazione dell’arte giullaresca fu tutt’altro che pretestuosa; essa rappresentava, sul piano storico, la definitiva rinascita della città che rompeva l’egemonia di una cultura appannaggio esclusivo della Chiesa, del Monastero e del Convento. Per cui:
Tentando di circuire dall’esterno il mondo complesso e variegato, che —con una parola sola che sottende tante cose—, chiamiamo il mondo dei giullari, si finisce forse, a tratti, col trovarselo più accosto, dinnanzi. Non sarà lo stesso per il mondo degli scolari che popola a Bologna o a Parigi, agli inizi del Duecento, le nuove istituzioni universitarie?9
Al Convegno parteciparono studiosi provenienti prevalentemente dall’Italia, ma anche dagli USA e dalla Francia.
Lo spettacolo, dal titolo Detto del gatto lupesco, era costruito con l’interpretazione di più testi: di Castra Fiorentino, di Ruggieri Apugliese e di altri rimasti anonimi.10
Un’altra piazza di Viterbo, quella di San