Il Segreto Dell'Orologiaio. Jack Benton

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Il Segreto Dell'Orologiaio - Jack Benton

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le lancette erano un paio d’ore avanti — stava segnando le undici — e il fondo era stato danneggiato dall’acqua nel punto in cui la busta si era rotta. Slim provò a rimuovere il retro per dare un’occhiata all’interno, ma era stato saldamente avvitato e, dal momento che non aveva i propri attrezzi con sé, non voleva disturbare la Signora Greyson di nuovo. Il legno, però emanava un forte odore di muschio di torba bruciato, così come di stantio. Non era affatto da escludere che l’orologio contasse più dei suoi quarantasei anni.

      Slim prese un panno umido dal lavabo e diede una ripulita all’orologio. La vernice recuperò velocemente la sua lucentezza regale, con lo svanire di sporco e polvere. Anche gli intagli si fecero più chiari: topi, volpi, tassi ed altri emblemi della fauna inglese si nascondevano tra curve e gli archi degli alberi. Il ticchettio risoluto degli ingranaggi suggeriva che la competenza tecnica eguagliasse quella artistica e che chiunque avesse costruito questo orologio, l’avesse fatto con orgoglio e grande maestria.

      Slim sistemò l’orologio sulla cassettiera accanto al letto e prese il cappotto. Era ora di uscire per la sua camminata notturna verso il pub, possibilmente arrivando in tempo per l’ultimo turno di ordini. Non se la sentiva di mangiare dei noodle di pollo e funghi per la terza notte di fila. Non gli dispiacevano i noodle riscaldati in generale, ma il mercatino locale aveva solo quel sapore. Una sera era riuscito ad accaparrarsi un barattolo di fagioli e delle salsicce, per poi scoprire che però erano andati a male da tre mesi.

      Mentre camminava sotto la pioggerellina che caratterizzava la Brughiera di Bodmin e i suoi dintorni dopo il tramonto, non riusciva a smettere di pensare all’orologio.

      Se al suo posto avesse trovato un sacco pieno d’oro, non ne sarebbe stato altrettanto intrigato.

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      “Comunque, chi è lei, veramente, Signor Hardy?” chiese la Signora Greyson, con la colazione in mano, come se servirla o meno dipendesse dalla sua risposta. “Insomma, si è fermato qui, nel bel mezzo del nulla, nella mia struttura per settimane, e tutti i giorni esce per camminare per la brughiera o vagare per il paese. È qui per un qualche motivo in particolare?”

      Slim alzò le spalle. “Sono un ex-alcolista.”

      “Che cena al Crown ogni sera?”

      “È la mia penitenza,” disse Slim. “Affronto i miei demoni. In più, mi siedo nel salone, lontano dall’alcol.”

      “Ma perché qui? Perché Penleven? Se non fosse per la sua incapacità di ricordare le funzioni di base, come prendere le chiavi della porta prima di uscire, penserei che sia una spia sotto copertura.”

      Slim alzò le spalle. “Non potevo permettermi di andare all’estero. E la Cornovaglia mia ha sempre affascinato, soprattutto i suoi luoghi scialbi, freddi e tenebrosi che la maggior parte delle persone evita di visitare.”

      “Beh, la descrizione perfetta di Penleven,” disse la Signora Greyson con aria leggermente delusa, come se avesse avuto la sua occasione per andarsene e l’avesse sprecata. “Ci sono solo un paio di centinaia di abitanti, ma almeno non siamo una di quelle cittadine fantasma durante l’inverno, come molti dei paesi sulla costa.”

      “Cittadine fantasma?”

      “Boscastle, Port Isaac, Padstow… hanno solo case vacanze. Prosperano in estate e sono deserte d’inverno. Forse non siamo una comunità molto attiva, ma si incontra sempre un volto amico all’alimentari o al pub.”

      Le volte che si era avventurato fuori dal salone del Crown per ordinare la sua cena, Slim non aveva visto molti volti amici, ma, piuttosto, oppressi, mentre sprofondavano nelle loro birre, fissando il vuoto. Forse era l’inverno — di notte, il vento fischiava, facendo sbattere le finestre così forte da temere, alle volte, che si staccassero dal muro, ed era realmente buio sulla via che portava all’albergo, non il buio di città a cui Slim era abituato. O forse era il fatto di non avere molto di cui parlare da queste parti. Il telefono di Slim non prendeva, a meno che non camminasse per un paio di chilometri in direzione dell’A39, ma per qualcuno che aveva più cose da dimenticare rispetto a quelle da aspettarsi, era la situazione ideale.

      Come arrendendosi al fatto che la caccia al pettegolezzo, che avrebbe potuto far accrescere la sua notorietà tra gli anziani membri dalla lingua lunga della sua comunità, era giunta al termine, la Signora Greyson servì a Slim la sua colazione e si mise in disparte, con le braccia conserte, ad osservarlo per qualche secondo, per poi voltarsi bruscamente e marciare verso la cucina. Slim era rimasto da solo nell’angusta sala da pranzo dell’albergo, composta da tre tavoli addossati così tanto alla parete da aver lasciato il segno sulla carta da parati, ed uno al centro della stanza, come fosse stato dimenticato lì in mezzo. La Signora Greyson, come atto di sfida contro la sfacciataggine con cui la tormentava con i suoi affari, preparava per Slim il posto peggiore di tutti ogni mattina: un tavolino infilato dietro la porta che portava all’ingresso. Il menù, di cui tre delle quattro opzioni erano state depennate, consisteva unicamente in un fritto di cavolo bollito, con un occasionale contorno di fagioli. Dava così tanto gas che Slim doveva lasciare la finestra aperta di notte.

      Almeno il pane tostato era gradevole e il caffè, anche se privo di quel tocco in più che Slim avrebbe aggiunto in passato, era forte e sembrava essere stato preparato il giorno prima, proprio come piaceva a lui.

      Mangiò velocemente, ringraziò la Signora Greyson con un urlo e si diresse fuori prima che questa potesse rimetterlo all’angolo. Fu accolto da un vento umido che fischiava dalla Brughiera di Bodmin per qualche chilometro ad est e che impediva alla sua giacca di mantenerlo al caldo e all’asciutto. Anche quando la brughiera era asciutta, Penleven era avvolta dalla pioggerellina di sempre, come se appartenesse ad un microcosmo a parte.

      L’autobus, che arrivò con dieci ammissibili minuti di ritardo, lo condusse, dopo un interminabile serpeggiare lungo strette e tortuose stradine tra le valli boscose, alla pianura che ospitava la ridente città di Tavistock. Disposta ai margini di un tratto del fiume Tavy, si configurava come un gradevole incasso di strade storiche, rivestite di negozi sorprendentemente cosmopoliti. Cullato dall’inconsueta presenza umana, Slim ne approfittò per rimpiazzare il vecchio sapone del bagno della Signora Greyson, comprare una maglietta di H&M e pranzare in un fast-food. Tornando agli affari, dopo aver assistito alla partita di rugby su un grande schermo, individuò il mercatino vicino al fiume e chiese in giro di un commerciante di antiquariato. Tre persone consigliarono Geoff Bunce, il proprietario di una bottega nascosta all’angolo poco più avanti, vicino ad un bar ben movimentato.

      “Devo far valutare un orologio,” disse Slim a Bunce, il cui girovita e barba bianca lo rendevano un Babbo Natale fuori stagione, aspetto poi accentuato dalle bretelle che gli cingevano la pancia sporgente.

      “Mi faccia dare un’occhiata.”

      Bunce rigirò l’orologio svariate volte, borbottando fra sé e sé con visibile soddisfazione, stringendo gli occhi di tanto in tanto per lanciare un’occhiata sospetta a Slim.

      “Le dispiace se apro il retro?”

      “Nessun problema.”

      Mentre Bunce si mise al lavoro con il cacciavite, Slim si sedette a lato della scrivania e lasciò vagare lo sguardo verso gli scaffali e scatole colmi di cianfrusaglie. Non tanto antiquariato quanto spazzatura di un passato molto lontano.

      “È un amico del vecchio Birch?” chiese Bunce all’improvviso.

      “Cosa?”

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