Scherzi Del Futuro. Marco Fogliani
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“Continuo a pensare che lei sia sprecata in questa azienda: doveva fare la modella.”
Lei ignorò il mio commento e proseguì nella relazione, invitandomi più di una volta a non distrarmi e a seguire maggiormente le sue parole. Immagino che fosse davvero evidente ciò su cui ero concentrato: la sua bellezza monopolizzava il mio sguardo e ogni mia attenzione. Era più forte di me. Non mi accorsi neanche che stavo grondando di sudore. La temperatura era ormai salita ben oltre i trenta gradi, quando lei “esplose” dicendo:
“Dottore, faccia qualcosa per questo caldo, perché qui a momenti mi sento male. Non posso continuare in queste condizioni.”
Era vero: si schiattava dal caldo. Era chiaro che proseguendo per quella strada non si sarebbe arrivato al termine dello strip-tease, ma al pronto soccorso: la signorina Kanakis si stava dimostrando molto seria non solo sul lavoro.
Mi diedi subito da fare per porre rimedio a quella imbarazzante situazione. Dopo alcuni tentativi ottenni qualche effetto, anche se non era esattamente quello che desideravo: la finestra si aprì e cominciò a sbattere (o almeno così sembrava), e in sincronia con questi movimenti arrivavano folate d'aria, calda anch'essa. Buona parte dei fogli di appunti della signorina Kanakis erano già finiti sparsi sul pavimento della sua stanza prima che io riuscissi a far sparire la finestra virtuale e l'effetto spiaggia.
“Che disastro! Sono mortificato.” Istintivamente mi alzai per aiutarla a raccogliere i fogli sparsi, ma dovetti fermarmi di fronte alla parete che ci divideva, consapevole di non poter fare niente.
“Lasci stare, non si preoccupi. Almeno adesso si riesce a respirare.” Non potevo fare altro che limitarmi a guardarla mentre si chinava a raccogliere i suoi fogli, sparsi dappertutto fin quasi ai miei piedi. Ma era un bel guardare, quel corpo snello ed elastico che si alzava ed abbassava in continuazione per nulla infastidito dalla gonna aderente e non troppo lunga. E la vedevo - miracoli della scienza e della tecnica - con la stessa chiarezza e nitidezza che se fosse lì presente in persona, come se bastasse allungare una mano per poter toccare quel corpo caldo (sicuramente) e morbido (pensavo) che calamitava il mio sguardo.
La guardavo così, quasi in trance, mentre raccoglieva gli ultimi fogli proprio vicino alla mia scrivania, e non mi resi neanche conto del movimento della mia mano, comandata non da uno stimolo del cervello ma da una parte incontrollabile del mio subconscio. E non me ne sarei accorto per un bel pezzo se non fosse stato per gli appositi sensori con allarme sonoro che segnalano qualunque contatto con le pareti di proiezione, contatto che in breve tempo può risultare dannoso per le stesse pareti e per tutto il box. Così rimasi sorpreso quasi quanto lei di udire quei beep a intermittenza, e con la stessa sorpresa mi resi conto che erano provocati dalla mia mano che, inconsciamente convinta di essersi adagiata su una delle sue bele chiappe tonde e sode, aveva già impresso una sua impronta grigiastra sulla parete.
“Ma cosa succede? Cos'altro ha combinato stavolta?”, mi chiese lei che forse, per mia fortuna, non aveva afferrato in pieno la situazione.
“Niente, niente. Per un attimo ho dimenticato che non siamo nella stessa stanza. Volevo solo darle una mano a raccogliere i fogli.” Per fortuna non eravamo nella stessa stanza, pensai, altrimenti avrebbe percepito chiaramente la mano che volevo darle, e in che modo!
“Senta, dottore: mi sembra che oggi lei sia decisamente fuori fase. Che ne direbbe di risentirci un'altra volta, magari domani alla stessa ora, sperando di avere più fortuna e di trovarla in una condizione più adatta per ascoltare la mia relazione?”
“Sì, sì, ha ragione”, mi vidi costretto ad ammettere. “Rimandiamo tutto a domani, che oggi proprio non è giornata.” Non mi aveva neanche lasciato il tempo di finire che, nel modo deciso di chi non ne può più, si era avvicinata alla console e aveva pigiato il tasto di interruzione del collegamento. Mi ritrovai solo e sconsolato nella mia stanza.
Nonostante tutto non mi persi d'animo. Tramite internet ordinai subito un bel mazzo di fiori da recapitarle il giorno dopo. Per il bigliettino di accompagnamento rielaborai, ispirato da una improvvisa vena poetica, uno dei testi che il sito suggeriva per le varie occasioni (A dispetto della figuraccia di quella mattina, sentivo che la signorina Kanakis induceva in me un influsso benefico e creativo straordinario. Pensai che fosse amore). A cui aggiunsi anche qualche parola di scuse per la situazione creatasi quel giorno.
Poi cercai, sempre in internet, il braccialetto da regalarle. Ne trovai più di uno che mi sembrava adatto, in diversi negozi; ma con mio disappunto, nessuno di coloro che lo offrivano era in grado di consegnarlo entro il giorno successivo. Telefonai anche al numero di riferimento di quella che sembrava la società più seria e rapida nelle consegne, e mi fu spiegato che, in caso di recapiti all'estero, non era tecnicamente né umanamente possibile ridurre i tempi da loro impiegati. C'era da acquisire l'ordine, reperire il prodotto nei magazzini, imballarlo. Trattandosi di una grande società multinazionale, in genere potevano reperire il prodotto anche nei magazzini della nazione di destinazione (ma per gli ultimi articoli inseriti a catalogo poteva essere necessario farli arrivare dalla sede centrale, in Olanda). Rimanevano i tempi di consegna locali, ma soprattutto quelli legati all'accertamento dell'avvenuto pagamento. “A meno che, per guadagnare tempo, non voglia optare per il pagamento in contanti alla consegna”, mi aveva proposto lui: ipotesi assolutamente inaccettabile nel mio caso.
“Non è possibile, per accelerare i tempi, che sia io a pagare in contanti qui da voi?”, gli chiesi.
“Non saprei, non è una prassi prevista, anche perché le nostre sedi non prevedono sportelli per il pubblico. Però se vuole fare un tentativo le lascio l'indirizzo della filiale di Roma, e qualche nominativo che forse può provare a contattare.”
Uscii in fretta e, preso dai miei pensieri (controllavo mentalmente che non mi stessi dimenticando qualcosa: chiavi della macchina, telefonino, indirizzo dell'agenzia e della signorina Kanakis, numero di catalogo del braccialetto scelto) rischiai di non accorgermi di mia moglie che mi salutava, con espressione interrogativa e alquanto preoccupata. “Tutto a posto, dovrei tornare per pranzo”, le dissi distrattamente e senza convinzione.
E in effetti dopo neanche un'ora ero già sulla strada del ritorno.
Non sapevo se ero riuscito ad ottenere quello che volevo. Forse l'avrei saputo il giorno dopo dalla signorina Kanakis. (Forse, perché, conoscendola, avrebbe potuto anche ricevere il regalo facendo finta di niente, o addirittura rifiutarlo). Quello che sapevo per certo era che, solo per mantenere viva la mia speranza, avevo creduto alla promessa non del direttore della filiale, che in quel momento era irreperibile, ma di uno che, a volergli credere, era il coordinatore del servizio spedizioni. Avevo fatto l'ordine tramite telefonino, pagando a lui in contanti ed elargendogli una somma aggiuntiva assai considerevole (quest'ultima senza ricevuta); fidandomi semplicemente della parola di quell'Arturo, che mi aveva garantito che sarebbe stato fatto tutto il possibile. Doveva essere amore, avevo pensato per la seconda volta nella giornata.
E la cosa buffa era constatare che, con tutta la tecnologia a mia disposizione (ho dimenticato di parlare del navigatore satellitare della mia auto e delle potenzialità del mio telefonino, ma del resto sapete già tutto), nonché contanti e carte di credito, il raggiungimento di quello che per me era diventato un obiettivo primario era legato all'onestà, alla buona volontà e alle lune di quello sconosciuto Arturo, che nella mia immaginazione era partito subito per la Grecia con un vecchio camion quasi vuoto, correndo contro il tempo per portare il mio preziosissimo regalo.
Rientrato alla mia postazione, cercavo di riordinarmi le