I figli dell'aria. Emilio Salgari

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I figli dell'aria - Emilio Salgari

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abbassò rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a scaraventarlo come un proiettile fra l’orda urlante.

      A quella nuova prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati.

      – Vi accoppo tutti, canaglie! – urlò Rokoff. – Indietro!

      A quel fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale. Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non troppo facili a spaventarsi.

      Ad un comando dell’ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso Rokoff.

      – Indietro! – tuonò il colosso.

      L’ufficiale invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli

      – Non opponete resistenza o comando il fuoco. Tale è l’ordine.

      – Rokoff, bada – disse Fedoro. – Sono soldati e obbediranno.

      – Meglio farci fucilare che lasciarci imprigionare.

      – No, amico, noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà riconosciuta. Siamo prudenti per ora.

      Rokoff, quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il povero diavolo, che pareva più morto che vivo.

      Nel medesimo istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. —

      – Una ribellione? – disse, aggrottando la fronte. – Volete aggravare la vostra posizione o farvi uccidere.

      – Dite ai vostri uomini che siano meno brutali – rispose Fedoro. – Noi non siamo stati ancora condannati.

      – Darò gli ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza. Seguitemi.

      – Obbediamo, Rokoff.

      – Se tu mi avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni – rispose il cosacco. – Avevo cominciato così bene!

      – E avremmo finito male.

      – Ne dubito.

      – Seguiamo il magistrato.

      Scortati dai soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono introdotti in un’ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando ancora il sangue dal collo.

      Erano orribili a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un’angosciosa espressione di dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava scritto:

      La giustizia ha punito il furto.

      – Mille demoni! – esclamò Rokoff, stringendo le pugna. – È per spaventarci che ci hanno condotto qui?

      – Sono gabbie che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri – disse Fedoro. – Guarda altrove.

      – Sì, perché mi sento il sangue ribollire.

      Attraversato lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di tortura.

      Vi erano numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d’ogni grossezza, destinate alla bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini d’acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti.

      – Canaglie! – brontolò Rokoff. – Altro che l’Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più feroci degli antropofagi.

      Stavano per varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il sangue ad entrambi.

      Era un insieme di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci.

      – Qui si ammazza! – gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente.

      – Si tortura – rispose Fedoro.

      – E noi lasceremo fare?

      – Non spetta a noi intervenire.

      – Io non posso tollerare…

      – Devi resistere, Rokoff.

      – Che non veda nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne posso.

      Il magistrato, che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra, inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata.

      Un carceriere stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa.

      Si trovavano in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile, essendo la luce fioca. L’unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie secche, che doveva servire da letto.

      – Bell’alloggio! – esclamò Rokoff. – Nemmeno una coperta per difenderci dal freddo.

      – E nemmeno uno sgabello – disse Fedoro. – Molto economi questi cinesi.

      A un tratto si guardarono l’un l’altro con ansietà.

      Avevano udito dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile.

      – Si tortura anche presso di noi? – chiese Rokoff.

      S’avvicinò al pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere.

      – Guarda, Fedoro – disse con voce soffocata. – Che cosa fanno subire a quei miseri?… L’orrore mi agghiaccia il sangue.

      GLI ORRORI DELLE CARCERI CINESI

      Fedoro, quantunque provasse una sensazione non meno terrificante, spinto da una viva curiosità, si era approssimato al pertugio, il quale, trovandosi solamente a un metro e mezzo dal suolo, permetteva di vedere al di fuori senza dover arrampicarsi.

      Non immetteva veramente su un cortile, bensì sotto una immensa tettoia, il cui pavimento era formato da un tavolato crivellato di buchi.

      Cinque o sei esseri umani, che parevano già agonizzanti, cogli occhi schizzanti dalle orbite, pallidi come se tutto il sangue avesse abbandonato i loro corpi, si contorcevano disperatamente, mandando lugubri lamenti.

      Non si vedevano che i loro tronchi, avendo le gambe, fino alle cosce nascoste entro il tavolato, in quei buchi che già Fedoro aveva notati.

      Alcuni aguzzini seminudi, veri tipi di carnefici,

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