La perla sanguinosa. Emilio Salgari

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La perla sanguinosa - Emilio Salgari

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Bek, che voi non crederete a quello che ha detto quel miserabile cingalese. Nessuno lo ha aggredito, potete credere alla parola leale d›un uomo di mare.»

      «Tu sei un forzato al pari degli altri e la tua parola non ha maggior valore della loro, quantunque tu sia un inglese al pari di me,» rispose il sorvegliante.

      Una viva fiamma balenò negli sguardi di Will, mentre un pallore mortale gli copriva il volto.

      «Un giorno, – disse con voce alterata, fremente di collera e d›indignazione, – fui un uomo d’onore. Se io ho ucciso il mio sergente d’armi lo feci perché costrettovi e spintovi in un momento di follia, e voi lo sapete. Mi hanno condannato e sia pure, ma questa condanna non ha guastato la lealtà dell’antico quartiermastro della Britannia

      L’espressione dura, quasi sprezzante, che si leggeva sul volto del guardiano, si era a poco a poco dileguata.

      «Ti credo, – disse, con accento un po› raddolcito. – Sono però costretto a rinchiudervi tutti e tre nella cella di rigore, finché i fatti saranno chiariti. Io non posso trasgredire i regolamenti.»

      «Fate pure, – rispose asciuttamente l›ex quartiermastro della Britannia, porgendo i polsi. – Ammanettatemi.»

      Il sorvegliante fece un segno ai suoi uomini, i quali s’affrettarono ad incatenare le braccia all’europeo, al malabaro ed al cingalese

      «Al deposito, – disse, – e fate fuoco su chi tenta di fuggire.»

      Poi rivolgendosi agli altri forzati, aggiunse con un tono che non ammetteva replica:

      «Al lavoro, voi: l›ora del riposo è trascorsa.»

      E mentre nella foresta rimbombavano i colpi di scure dei galeotti ed i tronchi resinosi dei darmar precipitavano al suolo con gran fragore, i tre prigionieri, scortati da due guardiani, venivano condotti a Port-Cornwallis.

      2. Un dramma cingalese

      Il penitenziario di Port-Cornwallis, che fu chiamato più tardi il cimitero degli europei, a causa del clima micidialissimo dovuto alle grandi e continue piogge e alle immense foreste che coprono quelle isole, non fu veramente mai una grande colonia penale come quelle australiane e quella di Norfolk.

      Fondato sulla costa orientale dell’isola più settentrionale del gruppo delle Andamane, sulle rive d’una profonda e sicura baia, difesa da numerosi isolotti, vivacchiò senza poter mai ingrandirsi, sia per la vicinanza della costa birmana con delle isole di fronte alle bocche dell’Irawaddy, ciò che permetteva facili fughe ai galeotti, sia per la violenza dei monsoni del sud-ovest che rendevano difficile l’approdo ai trasporti dello Stato, sia pei grandi calori alternati da acquazzoni furiosi che in breve tempo riducevano i sorveglianti in tale stato, da costringerli a rimpatriare più che presto.

      Nel 1850 lo stabilimento, quantunque fondato da parecchi anni, si componeva ancora di poche baracche pei forzati, di una caserma, di una prigione e d’un ospedale che era sempre il più popolato; e la sua guarnigione non superava i cinquanta uomini incaricati della vigilanza di tre o quattrocento galeotti, quasi tutti indiani e cingalesi.

      Unico lavoro di quei miserabili era il dissodamento delle immense foreste che coprivano l’isola, per preparare dei campi ai futuri coloni; unica ricchezza che ne traeva il governo anglo-indiano era il commercio dei legnami più pregiati, che di quando in quando venivano imbarcati per la madre patria; legnami che abbondavano, specialmente quelli adatti per la costruzione delle navi. Con gl’indigeni nessun contatto, nonostante gli sforzi dei governatori della colonia penale per indurli a costruire le loro dimore intorno alla baia. Quegli isolani, per natura diffidenti, si erano ostinatamente mantenuti inaccessibili a tutti i tentativi d’incivilimento e d’amicizia, rimanendo selvaggi e colle armi sempre pronte.

      Non davano fastidi alla colonia, quantunque non vedessero di buon occhio quegli stranieri insediati sulla loro isola, ma si tenevano celati nelle loro umide foreste, pronti a respingerli se si fossero inoltrati verso l’interno e a dare addosso ai forzati i quali, sapendo che presso quei bruti non avrebbero trovato grazia, si guardavano bene dal fuggire entro terra.

      Così la colonia vivacchiava, senza una speranza di diventare un giorno florida, al pari delle colonie penali australiane, con nessun altro successo che quello di aumentare le croci del piccolo cimitero dove forzati e sorveglianti andavano a riposare per sempre, con una frequenza tale da dare molto pensiero al governo inglese e da indurlo, più tardi, a lasciar di nuovo l’isola ai suoi primitivi padroni.

      . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

      Il quartiermastro della Britannia ed il malabaro, mezz’ora dopo la scena svoltasi nella foresta, si trovavano chiusi insieme in una cella del penitenziario, una specie di cabina di due metri quadrati, che l’ardente sole aveva già tramutato in vero forno, incatenati l’uno presso all’altro sul nudo tavolaccio, in modo da non potersi nemmeno mettere a sedere.

      I guardiani, dopo aver posto a portata delle loro mani una brocca di terra piena d’acqua e due mezze pagnotte di pane bigio, se n’erano andati salutandoli con un ironico «buon riposo, giovanotti» e chiudendo accuratamente la porta di grosse tavole di tek, che solo un petardo avrebbe potuto sfondare.

      «Peccato non averlo potuto accoppare, – disse il malabaro, quando il rumore dei passi si spense in fondo al corridoio. – Quell›uomo, signor Will, intralcerà tutti i nostri piani e la fuga diverrà ormai quasi impossibile.»

      «Eppure bisogna che io me ne vada da questo inferno: è necessario.»

      «E se io non avessi la speranza di poter un giorno o l›altro andarmene, mi ucciderei spaccandomi la testa contro qualche roccia.»

      «Si direbbe che tu hai più premura di me, – rispose il quartiermastro. – Eppure ho osservato che gl›indiani sono quelli che tentano meno la fuga e si rassegnano più facilmente di tutti alla loro sorte.»

      «È vero, signor Will, – rispose il malabaro – ma a quelli forse manca un motivo imperioso.»

      L’europeo voltò la testa guardando fisso il pescatore di perle e rimase sorpreso dall’intenso dolore che traspariva in quell’istante dal viso dell’ercole.

      «È l›ardente desiderio di ritornare fra i pescatori di perle a respirare la libera brezza del mare, o qualche motivo più grave ciò che ti spinge a tentare l’evasione? – chiese. – Tu non mi hai detto perché ti tormenta così insistentemente il sogno della libertà.»

      «Ve l›avrei narrato, signor Will, se quel dannato cingalese non avesse interrotto la nostra conversazione colla sua improvvisa comparsa. Mi ero deciso a raccontarvi la mia storia, che voi avete sempre ignorato.»

      «Mi hanno detto che ti hanno cacciato in questo bagno perché hai ucciso un sacerdote buddista nella baia d’Aripo. È vero?»

      «È vero, – rispose il malabaro con voce triste. – L›ho ucciso sui gradini della pagoda con tre colpi di coltello e, se ho un rincrescimento, è quello di non aver potuto vibrargliene cinquanta, perché quell›uomo meritava cinquanta volte la morte.»

      «Indovino una storia dolorosa nella tua vita, – disse il quartiermastro. – Qualche terribile dramma deve aver avvelenato la tua esistenza.»

      «È vero, signore, – ripeté il pescatore di perle. – Sognarla, vederla sempre, udire sempre il suo grido, ed essere qui, in questo inferno! È impossibile che io possa resistere! È troppo! Bisogna che me ne vada!»

      Un rauco singhiozzo

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