La perla sanguinosa. Emilio Salgari
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Ma le malattie artificiali non si limitano alla sola itterizia. Ben altre essi sanno provocarne con dei mezzi sorprendenti che farebbero stupire gli stessi medici se potessero conoscerli.
Alcuni, per esempio, preferiscono la congiuntivite. Per procurarsela spargono della cenere di tabacco nell’interno della palpebra inferiore, oppure fanno molte lavature con acqua saponata. Si sono veduti anzi taluni forzati diventare completamente ciechi facendo troppo uso della cenere di tabacco.
Altri preferiscono la dissenteria e per ottenerla, specialmente i forzati dei penitenziarii della Guiana francese, inghiottono dei semi d’una pianta chiamata dagl’indigeni «panacoco» (hura crepitans) che esercitano una grande azione irritante, maggiore di quella che produce l’olio di croton.
Fu la morte di uno di quei disgraziati a svelare il segreto di quelle dissenterie che colpivano troppo di frequente i galeotti della Guiana e delle isole della Salute, il che diede luogo a provvedimenti proibitivi e severi da parte dei direttori dei penitenziarii, con grande ira dei galeotti che venivano in tal modo privati d’uno dei mezzi migliori e più semplici per darsi ammalati.
Di fianco alle ricette classiche si trovano pure invenzioni straordinarie di certi intellettuali del bagno che hanno trovato nuovi mezzi da aggiungere a quelli già conosciuti dai vecchi forzati.
Un galeotto, per esempio, che era stato studente in medicina, ha utilizzato le sue conoscenze chimiche per insegnare ai suoi compagni di pena il modo di procurarsi con poca spesa un rigonfiamento pronunciatissimo dello stomaco. Per ottenere quella malattia raccoglieva tutte le cannucce delle vecchie pipe che poteva trovare, specialmente di quelle di gesso, le riduceva in polvere e faceva trangugiare al «paziente» un po’ di quella miscela di terracotta e di gesso insieme ad un bicchierino d’aceto. Quegli elementi producevano nello stomaco una grande quantità di acido carbonico che lo dilatava enormemente, simulando così la classica dilatazione di stomaco.
I forzati conoscono anche l’arte di produrre e di mantenere le piaghe, e di dare ad esse un’apparenza orribile. Per giungere a quel risultato sollevano una piega della pelle e l’attraversano con un filo di lana inzuppato di tartaro dentario, avendo però cura di non farlo uscire dall’altra parte. Ciò fatto aspettano la mortificazione del tessuto ed ottengono così una piaga piena di suppurazione.
Perfino il flemmone sono capaci di procurarsi e l’ottengono introducendo profondamente sotto la pelle una sfilacciatura di uno straccio qualunque, un pezzetto d’osso, una mosca o qualche altro insetto. Il forzato sceglie di preferenza la cavità della parte posteriore del ginocchio, dove si trova un grosso strato di tessuto epiteliale, anche perché la guarigione è lunga e difficile e gli promette un riposo di parecchi mesi e anche perché lo esenta talvolta dal lavoro per tutta la vita, manifestandosi non rare volte una anchilosi completa del ginocchio.
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Will, il quartiermastro della Britannia, aveva fumato le sigarette da una mezz’ora, quando il capo sorvegliante rientrò, accompagnato da un uomo vestito di tela bianca, con un elmo pure di tela in testa e alte uose a doppia bottoniera.
Era d’aspetto simpatico, con occhi azzurri, barba e capelli biondi, la pelle assai abbronzata, dovuta probabilmente al lungo soggiorno in quell’isola, così esposta alle furiose raffiche dei monsoni indiani ed ai cocentissimi raggi equatoriali.
«C›è quel forzato che si lagna di essere ammalato, dottore, – disse il capo. – Io già vi prevengo che non gli credo e penso che finga di esserlo per andare a riposare qualche giorno all’infermeria.»
Il quartiermastro si era alzato da sedere; fingendo uno sforzo supremo e mostrando le larghe macchie che imbrattavano il suolo e l’orlo del tavolo, prodotte dal vomito che lo aveva assalito dopo l’ultima sigaretta, disse:
«Ecco le prove se io sono ammalato o no. Vi ho già detto che temevo mi cogliesse l›itterizia. Guardatemi il viso, dottore.»
«Sei giallo come un melone, – rispose il medico. – Non occorre che ti visiti. Passatelo all›infermeria.»
«Andrà a tenere compagnia al malabaro,» disse il capo ridendo, mentre il dottore se ne andava, senza curarsi di dare uno sguardo di più al quartiermastro.
«L›avete battuto quel disgraziato?» chiese Will a denti stretti.
«Perbacco! L›abbiamo fatto cantare meglio d›un pappagallo ammaestrato! Tu, che sei stato marinaio, sai già come accarezza bene le spalle il gatto a nove code e come sa anche adoperarlo quel caro Fok. Ha il polso solido quell’uomo e nessuno può resistere ai suoi colpi.»
«E il Guercio?»
«Non si puniscono gli innocenti.»
«Cioè le spie,» corresse ironicamente il quartiermastro.
«È un›idea tua quella.»
«Tutti sanno che quel cingalese è la spia del bagno.»
Il capo sorvegliante alzò le spalle con fare annoiato, poi disse:
«Su, vieni, se è vero che sei ammalato. Gran buon uomo quel dottore! Io, se fossi al suo posto, ti avrei mandato invece nella foresta a tagliare alberi.»
Will credette opportuno non rispondere.
Il capo gli staccò la catena, poi lo spinse ruvidamente giù dal tavolato, dicendogli:
«Non avrai la pretesa che io ti porti. Avanti!»
Il quartiermastro ebbe un lampo di rivolta dinanzi a tanta brutalità. Lo fissò in faccia, incrociando nello stesso tempo le braccia, poi gli disse con voce sibilante:
«Mi prendi per un indiano tu, Foster? Tu sei un bruto che non sa rispettare la sventura.»
«Non prenderti tanta confidenza, Will, – rispose il capo. – Non ti è permesso darmi del tu.»
«Sono un tuo compatriota.»
«Per me non sei altro che un numero. Basta, cammina o ti farò assaggiare il gatto appena sarai guarito.»
Il quartiermastro con uno sforzo supremo si frenò e uscì lentamente dalla cella, seguito dal capo che teneva in mano l’estremità della catena.
Percorsero un lungo corridoio, dove regnava un calore infernale e salirono una gradinata, sul cui pianerottolo vegliava un guardiano armato di carabina colla baionetta inastata.
«È entrato nessun altro nell›infermeria?» chiese il capo alla sentinella.
«Sì, un altro,» rispose il guardiano.
«Chi?»
«Jody, il macchinista.»
«Anche quello ammalato?»
«È entrato poco fa colle guance così gonfie che mi parevano due zucche.»
«Mi