La perla sanguinosa. Emilio Salgari
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«Ma che cos’è quella perla? E che cosa c’entra in questa storia?» Palicur stava per rispondere, quando in fondo al corridoio si udirono dei passi pesanti che s’avvicinavano.
«I guardiani, – disse il quartiermastro. – Brutto segno.»
In quel momento la porta si aprì e tre sorveglianti guidati da un sergente, armati tutti di fucili colle baionette inastate, entrarono nella cella. Dall’aspetto severo e dal volto accigliato del sergente, i due forzati capirono subito che non spirava buona aria per loro e che quella partita di pugni non doveva essersi arrestata al capitombolo del Guercio.»
«Pigliate quell›uomo,» disse il capo, indicando il malabaro.
«Dove volete condurmi?» chiese Palicur, con voce tranquilla e guardando ironicamente i quattro guardiani.
«A farti assaggiare le delizie del gatto a nove code, – rispose il capo. – Venticinque colpi che ti accarezzeranno le spalle, e ti insegneranno a rispettare i tuoi compagni di lavoro.»
«E soprattutto, le spie, – aggiunse il quartiermastro della Britannia, beffardamente. – Sono persone sacre quelle!»
«Chiudi il becco, tu, – gridò il capo, e sii contento di non provare anche tu le nove code.»
«E il Guercio mi terrà compagnia almeno?» chiese Palicur, il quale non dimostrava alcuna apprensione per la terribile condanna che gli era stata inflitta.
«Non occuparti del 304.»
«Già, perché è un protetto del direttore nella sua qualità di spia.»
«Basta! – gridò il capo, alzando minacciosamente il pugno. – Presto, legate questo pappagallo mal dipinto.»
Il malabaro, udendo quelle parole, si alzò a sedere, mandando un urlo di furore.
«Sappi, sergente, che l›uomo che tu hai chiamato pappagallo è un discendente dei rajah di Calicut, di quei rajah che diedero tante terribili lezioni ai tuoi compatrioti, prima di venire dispersi per l’India.»
«Ma ora non sei che un forzato.»
«Condannato quasi innocente. Se ho ucciso era nel mio diritto.»
«Già, tutti dicono così; sempre innocenti, – disse il capo ghignando. – Lesti!»
I tre guardiani staccarono le catene fissate agli anelli del tavolato e liberarono le gambe del malabaro, il quale con un balzo fu subito in piedi.
«Eccomi, – disse, – ma giuro su Sivah che se quel maledetto cingalese non condividerà la mia pena, appena rimessomi in gambe lo ucciderò.»
«E noi ti impiccheremo, – rispose il sergente, – così avremo due bricconi di meno da sorvegliare e due bocche di meno da sfamare. Avanti, in cammino!»
«Ed io?» chiese il quartiermastro, mentre strizzava l›occhio al malabaro.
«Tu rimarrai qui per otto giorni, – rispose il capo. – È un riposo che non ti guasterà le ossa.»
«Io sono ammalato e non potrò resistere. Volevo anzi, fino da ieri, fare domanda di essere passato nell›infermeria. Temo di venire colto dall›itterizia.»
«Te la sbrigherai col medico, se avrà tempo di venire a trovarti.»
«Vi prego di avvertirlo. Ho un tremito incessante che non mi lascia un momento. Sono un vostro compatriota, dopo tutto.»
Il sergente alzò le spalle e uscì borbottando: «Quando giungerà. Ora è a caccia.»
E chiuse la porta con fracasso, facendo scorrere i grossi catenacci.
«Canaglie, – mormorò il quartiermastro, quando fu solo. – Risparmiano la spia e torturano quel povero malabaro. Bisogna che ce ne andiamo, dovessimo pagare colla nostra vita la libertà, altrimenti una volta o l’altra Palicur commetterà uno sproposito contro quel cane di un Guercio e si farà impiccare.
«No, quell›uomo che possiede una forza straordinaria non deve morire. Egli mi è troppo necessario e l›ora è giunta per tentare la fuga. La scialuppa a vapore sarà a nostra disposizione. Se tardassimo ancora un mese, i tifoni ed il monsone ci impedirebbero di avventurarci sul mare con qualche probabilità di successo.
«Fra poco Palicur sarà nell›infermeria col dorso sanguinante: e ci sarà anche l’altro. Raggiungiamoli.»
Si levò a sedere, per quanto glielo consentiva la lunghezza della catena, e si mise in ascolto. Non udendo il più lieve rumore, si aprì la camicia e da una cintura di pelle che gli stringeva il torso levò con precauzione una scatoletta di fibre di cocco, contenente otto sigarette ed alcuni zolfanelli.
Le osservò attentamente palpandole più volte, poi disse:
«Sono perfettamente asciutte e si lasceranno fumare. Io coll›itterizia, il macchinista colle guance gonfie, Palicur col groppone rovinato. Chi sospetterà che tre uomini ridotti in tale stato pensino a fuggire? Purché nel frattempo non scoprano il cilindro della macchina! In tal caso tutto sarebbe perduto.»
Accese una sigaretta e si mise a fumarla frettolosamente, poi ne accese un’altra e continuò finché le ebbe quasi tutte consumate.
Aveva appena finito l’ultima, quando fu preso da vomiti violentissimi.
«Ecco l›itterizia che giunge, – disse, sforzandosi di sorridere. – Fra pochi minuti il mio corpo diventerà giallo come quello di un vero malato e il gioco sarà fatto!»
3. Le astuzie dei forzati
Le furberie dei forzati per procurarsi delle malattie artificiali, che li esonerino per qualche tempo dai durissimi lavori dei cantieri, sono tali da far stupire ed essi riescono così bene nella finzione da ingannare i più abili medici. Le frodi tentate dai coscritti per essere dichiarati inabili al servizio militare, sono puerili in confronto a quelle escogitate dai forzati per avere qualche giorno di malattia e venire perciò trattati con un certo riguardo.
Nella loro impazienza di sottrarsi al lavoro che li accascia, i galeotti dei penitenziari hanno tutte le audacie, tutte le furberie. Davanti a quell’idea fissa di riposo, – che i guardiani e i medici chiamano poltroneria, forse ingiustamente, – sparisce perfino la loro sensibilità, e si sono veduti taluni mutilarsi atrocemente, altri provocare e mantenere pazientemente delle malattie per lunghi e lunghi mesi, e anche rovinarsi per sempre.
Quei disgraziati hanno dei segreti che si trasmettono l’uno all’altro e che la sagacia dei medici difficilmente riesce a scoprire.
Una delle malattie preferite dai forzati, perché obbliga gli infermieri a trattenerli a letto parecchie settimane, è appunto l’itterizia. Per simulare o provocare quella malattia, vi sono due mezzi ai quali i galeotti ricorrono indifferentemente.
Il primo consiste nel mettere un po’ di tabacco a macerare in un po’ d’olio di cocco per cinque o sei ore, poi seccarlo e fare delle sigarette aggiungendo al preparato un po’ di fosforo preso dai fiammiferi. Basta fumare sette od otto di quelle sigarette perché apparisca su tutto il corpo la tinta gialla caratteristica degli itterici. Il medico per di più rileva subito anche un certo imbarazzo gastrico con vomiti e febbri e si