I rossi e i neri, vol. 2. Barrili Anton Giulio
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Si era in gran faccende, quella mattina, nel palazzo Ducale. L'intendente (oggi si direbbe il prefetto) non intendeva niente; e strepitava perchè dovessero intendere gli altri. L'assessore capo pigliava il ranno, e lo rovesciava in capo alla turba minore de' suoi satelliti. Il generale del presidio mandava ordini e contr'ordini. L'avvocato fiscale sguinzagliava tutta la falange dei giudici istruttori. E tutti i campanelli, di qua e di là, di su e di giù, erano in moto, come le gambe dei sergenti, degli uscieri, e, a farla breve, di chiunque avesse qualchedun altro sopra di sè, nella gerarchia degli uffizi. Gran lavoro, troppo lavoro, per un ultimo giorno di trimestre!
Quella mattina, di sicuro, l'assessore capo non dava udienza ad ogni sorta di gente. E già alla dimanda dei tre amici, l'usciere aveva risposto, con breviloquenza spartana: «__occupato__.» Ma essi, tenaci, cavarono fuori i loro biglietti di visita, e dissero all'usciere che avrebbero aspettato risposta. E l'usciere, veduti tre nomi accompagnati da tre stemmi (perchè l'Assereto, quantunque non la pretendesse a marchese, conosceva le prerogative del suo casato), si persuase che quei signori francassero la spesa dell'ambasciata. Nè s'ingannava. Un minuto dopo, tornava frettoloso in anticamera, per sollevare rispettosamente la portiera, e dire ai tre visitatori: «Il signor Cavaliere li prega di entrare.»
Il signor Cavaliere era un uomo di quarantacinque anni, o in quel torno, da' capegli brizzolati, che portava sempre tagliati alla radice, e dal volto affatto ignudo, il quale lasciava scorgere in tutta la loro bellezza le cento grinze di un sorriso, che vi era come stereotipato, ed aiutava alla sua nominanza d'uomo piacevole e di belle maniere. Aveva fama altresì d'uomo avveduto; ma in quei giorni era stato ad un pelo di perderla, e quella mattina ancora egli non era ben certo di non aversela guastata davvero. Però il sorriso stereotipo del suo volto arieggiava la smorfia, e il saluto ch'egli fece ai tre signori era a mala pena quel tanto che occorreva, per istare alle buone creanze. Gli atti, poi, volevano dire assai chiaramente: «Signori, è proprio per le vostre pergamene che vi ho fatto entrare; sbrigatevi!»
– Signor cavaliere, – incominciò Aloise, – la cagione che ci conduce da Lei è molto grave, e forse Ella, ne' momenti in cui siamo, non crederà opportuno di darci le informazioni che siamo venuti per chiederle.
– Dica, ad ogni modo, signor marchese, e dove io possa… senza nocumento…
– Una perquisizione, – proseguì Aloise, – è stata fatta iersera in casa di Lorenzo Salvani…
– Salvani! La scusi, – interruppe l'assessore, – conosco questo nome.
Non sarebbe, per avventura quello di un signore che ebbe un duello con Lei?
– Per l'appunto, e di presente amicissimo mio. Ora, nella perquisizione fatta iersera in sua casa…
– Perquisizione! – esclamò il magistrato, stringendosi nelle spalle. – Aspettino, dò un'occhiata ai rapporti, per sincerarmene; ma, se ben ricordo, nessuna perquisizione è stata fatta in casa Salvani.
– È stata fatta dai carabinieri; – entrò a dire l'Assereto; – e forse Ella non ne avrà avuto ragguaglio.
– Oh, in questi negozi si procede d'accordo, – rispose l'assessore capo, in quella che andava scartabellando alcuni fogli che aveva sulla tavola, di costa allo scannello, – ed io, se la perquisizione è stata fatta, avrei pure a saperne qualcosa. E infatti, qui non trovo nulla di ciò.
– Diamine! – borbottò l'Assereto. – O come va, questa faccenda? —
E guardò in viso agli amici, stupefatti al pari di lui. Quindi, richiesto dall'assessore, raccontò per filo e per segno quello che egli aveva udito da Michele e dalla signorina Maria, non ommettendo neppure la conversazione fatta pur dianzi colla vicina di casa.
– Non ne capisco un ette! – disse l'uffiziale di pubblica sicurezza, quando l'Assereto ebbe finito la sua narrazione.
– L'Autorità non ha ordinato nulla di tutto quanto Ella mi dice.
– Ma, in tal caso, – soggiunse Aloise, – qui si chiarirebbe una bricconata, anzi due, di privati… —
Il signor cavaliere si strinse nelle spalle, giusta il suo costume, quasi volesse dirgli: che ci ho da far io?
– E l'Autorità, – fu pronto a seguitare il Pietrasanta, – certamente si farà debito di scoprire…
– Signori miei, – interruppe il magistrato, increspando la faccia alla solita smorfia, – molte cose abbiamo da scoprire quest'oggi. Lor signori intenderanno che le questioni d'ordine pubblico hanno la precedenza. Del resto, se vogliono, possono raccontare il fatto all'avvocato generale… non oggi, s'intende, poichè ci avrà molto da fare pur egli, ma domani, o poi… —
Così dicendo, il signor cavaliere si alzò; maniera pulita di dir loro: andatevene, signori, che non ho tempo da perdere.
E i tre amici, intesa la mimica, e veduto come il degno tutore dell'ordine pubblico avesse quel giorno altro in capo che quella bagattella di una perquisizione apocrifa e della scomparsa di una fanciulla, si accomiatarono da lui.
– E adesso, indovinala, grillo! – esclamò il Pietrasanta, come furono nell'atrio del palazzo Ducale.
– In questo imbroglio, – disse Aloise, – c'è sicuramente la mano di qualche matricolato furfante. Ma giuro, per l'anima di mia madre, che ne verrò in chiaro, e guai a lui!
– Ci avrete compagni, Aloise, – soggiunse l'Assereto porgendogli la mano, – compagni nel giuramento e nelle opere. Ora leviamoci di qua, e chiamiamo senza indugio i pensieri a capitolo. —
VII
Nel quale si racconta chi fossero i Templarii.
I Templarii! chi erano i Templarii?
Oh bella! risponderà l'erudito lettore. Erano i cavalieri di quell'ordine tra religioso e militare, che, fondato nel 1118 da nove cavalieri francesi, ebbe il nome dalla dimora che gli assegnò Baldovino II in Gerusalemme, in un palazzo attiguo al luogo dell'antico tempio di Salomone. I cavalieri del Tempio erano ordinati dapprima a soccorrere, curare e proteggere i pellegrini cristiani in Terra Santa; poscia l'ufficio loro si stese, anzi addirittura si volse, a difendere coll'armi la fede di Cristo e il Santo Sepolcro contro gli assalti degli infedeli. Più tardi, ricaduta Gerusalemme in balìa dei Saraceni, i Templarii si ridussero nell'isola di Cipro, donde proseguirono la guerra giurata, combattendo sul mare, o tentando audacissime imprese sui lidi nemici. Sterminatamente ricchi e possenti, avevano, intorno al 1250, alta e bassa signoria su novemila baliaggi, commende, priorati; la più parte de' quali in Francia, dove la baldanza loro, le mire ambiziose, e i tenebrosi instituti dell'ordine tornarono molesti a Filippo il Bello, per modo che egli pensò di sterminarli, e ne venne a capo, col ferro, col fuoco, e colle scomuniche di Clemente V, suo degno compare.
Il lettore erudito ha ragione; parla come un libro stampato, nè si potrebbe, per questo rispetto, insegnargli nulla di nuovo. Ma noi scriviamo cronache contemporanee, non storie antiche, e qui non si tratta dei Templarii, spenti nel 1314, sul rogo del loro gran maestro Giacomo Bernardo di Molay, bensì d'un altro ordine, assai più moderno, cioè a dire dei Templarii che fiorivano in Genova, nell'anno 1857, e non furono spenti da altri roghi, se non da quelli del matrimonio, da altre tanaglie, se non da quelle della necessità, da altre ruote, se non da quella della mutevole fortuna, da altri __in pace__, se non da quelli della spietata vecchiaia.
Ordine, sodalizio, compagnia, e simiglianti,