Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 13 - Edward Gibbon

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loro religione; ma le sue conquiste si limitarono alla piccola Fortezza di Seftigrado, il cui presidio dopo avere durato costantemente contro tutti gli assalti, fu vinto da un grossolano artificio e dagli scrupoli della superstizione44. Ma dopo avere perduta molta gente dinanzi Croia, Fortezza e residenza de' Castriotti, fu costretto a levarne vergognosamente l'assedio, e difendersi sempre, e nell'andata e nella tornata, contro un nemico quasi invincibile che incessantemente lo tribolava45. Vuolsi che il cordoglio sofferto pel cattivo esito di una tale spedizione contribuisse ad accorciare i giorni del Sultano46. In mezzo alla gloria delle sue conquiste, nemmeno Maometto II potè trarsi questa spina dal seno, ridotto a permettere ai suoi Luogotenenti di negoziare una tregua; sotto i quali aspetti il Principe d'Albania merita di essere riguardato come un abile e zelante difensore della libertà della sua patria. L'entusiasmo della religione e della cavalleria hanno collocato il nome di Scanderbeg fra quelli di Alessandro e di Pirro, i quali certamente non vergognerebbero di un concittadino sì intrepido; ma la debolezza del suo potere, e la picciolezza dei suoi Stati, lo mettono ad una distanza ben segnalata dagli Eroi che trionfarono dell'Oriente e delle legioni romane. Appartiene ad una sana critica il librare su giuste lanci il racconto luminoso delle imprese di Scanderbeg, dei Pascià e degli eserciti vinti, dei tremila Turchi che di propria mano immolò. Nell'oscura solitudine dell'Epiro e contro un ignorante nemico, i biografi di Scanderbeg poterono permettere alla loro parzialità tutte quelle agevolezze che agli scrittori de' Romanzi sogliono essere concedute. Ma la Storia d'Italia gettò sulle loro finzioni il lume della verità. Che anzi ne insegnano eglino stessi a diffidare della sincerità delle loro relazioni, col racconto favoloso delle imprese di Scanderbeg, allor che questi passando il mare Adriatico a capo di ottocento uomini andò in soccorso del Re di Napoli47. Avrebbero potuto confessare senza offuscar per questo la gloria del loro Eroe, che fu finalmente costretto di cedere alla Potenza ottomana. Ridotto a stremo, chiese un asilo al Pontefice Pio V, e convien dire che tutte le speranze gli fossero mancate, perchè morì fuggitivo a Lissa, isola spettante alla Repubblica veneta48. Ne violarono indi il sepolcro i Turchi, impadronitisi di questo paese, ma la pratica superstiziosa de' giannizzeri che portavano le ossa di Scanderbeg incastrate, a guisa di reliquia, ne' lor braccialetti, era una tacita confessione del rispetto in cui tenevano il suo valore; anche la rovina dell'Albania che seguì immediatamente dopo la morte di Scanderbeg, è per esso un monumento di gloria: ma, se avesse giudiziosamente bilanciate le conseguenze della sommessione e della resistenza, un più generoso amante della sua patria rinunziava forse ad una lotta ineguale, il cui successo dalla vita e dalla morte di un uomo sol dependea. Probabilmente lo confortò la speranza, ragionevole benchè illusoria, che il Pontefice, il Re di Napoli e la Repubblica di Venezia si unirebbero in difesa di un popolo libero e cattolico, vero guardiano delle coste del mare Adriatico e dell'angusto intervallo che disgiunge dalla Italia la Grecia. Il figlio di Scanderbeg, ancora fanciullo, fu salvato dal disastro che il minacciava: i Castriotti49 ottennero un Ducato nel Regno di Napoli, e il loro sangue si è trasfuso fino ai dì nostri nelle più ragguardevoli famiglie di questo Reame. Una colonia di fuggitivi albanesi ottenne possedimenti nella Calabria, ove conservano tuttavia la lingua e i costumi de' lor maggiori50.

      A. D. 1448-1453

      Dopo avere trascorsa tanta parte dell'intervallo frapposto allo scadimento e alla caduta dell'Impero Romano, eccomi finalmente al Regno dell'ultimo di questi Imperatori di Costantinopoli che il nome e la maestà de' Cesari sì debolmente sostennero. Dopo la morte di Giovanni Paleologo, che sopravvisse circa quattro anni alla Crociata dell'Ungheria51, la famiglia Imperiale, si trovò, per la morte di Andronico e la professione monastica di Isidoro, ridotta ai tre figli dell'Imperator Manuele, Costantino, Demetrio, e Tommaso. Il primo e l'ultimo di questi viveano in fondo della Morea, ma Demetrio padrone degli Stati di Selimbria, venuto era ne' sobborghi a capo di una fazione. Le sciagure della patria non aveano raffreddati gli ambiziosi disegni di cotest'uomo, che già avea turbata la pace dell'Impero cospirando coi Turchi e cogli Scismatici. Straordinaria e perfino sospetta fu la sollecitudine da lui posta nel dar tumulo all'Imperatore defunto; e a giustificare le sue pretensioni al trono, Demetrio si valse di un debole e vieto sofisma, adducendo che egli era il primogenito dei figli nati nella porpora, e in tempo che il padre regnava. Ma l'Imperatrice madre, il Senato e i soldati, il Clero e il popolo, chiarendosi unanimi pel successore legittimo, anche il Despota Tommaso, che casualmente, e ignaro della morte del padre, era tornato a Costantinopoli, sostenne con fervore i diritti del fratello suo Costantino. Venne immantinente spedito, quale Ambasciadore ad Andrinopoli, lo Storico Franza, che Amurat ricevè con onore, rimandandolo poscia carico di donativi; ma, in mezzo alla benevolente condiscendenza del Sovrano turco, trapelavano le sue pretensioni a riguardare il Greco, siccome vassallo, indizio della prossima caduta dell'Impero di Oriente. Coronato a Sparta da due illustri Deputati del Regno, Costantino partì in primavera dalla Morea, evitando lo scontro di una squadra turca; e giunto a Costantinopoli fra le acclamazioni de' sudditi, celebrò il suo avvenimento al trono con feste e con liberalità che impoverirono l'erario, o piuttosto condussero ad estremo termine la miseria dello Stato. Ceduto immantinente ai suoi fratelli il possedimento della Morea, i due Principi Demetrio e Tommaso si riconciliarono alla presenza della loro madre, con giuramenti ed amplessi, pegni mal fermi della fragile loro amicizia. L'Imperatore pensò indi a scegliersi una moglie, che gli venne additata nella figlia del veneto Doge; ma i Nobili di Bisanzo ponendo in campo la distanza che v'era fra un Monarca ereditario ed un Magistrato elettivo, lo indussero ad un rifiuto, di cui in appresso, ne' momenti più angustiosi di Costantinopoli non si dimenticò il Capo di una tanto poderosa Repubblica. Costantino stette perplesso fra le famiglie reali di Georgia e di Trebisonda. Le relazioni dell'ambasceria di Franza, o ne riguardino i pubblici ufizj, o la vita privata, ci dipingono gli ultimi momenti del greco Impero52.

      A. D. 1450-1452

      Franza, Protovestiario, o gran Ciamberlano, partì da Costantinopoli munito dell'autorità Imperiale, e sfoggiando con tal pompa che a renderla luminosa furono adoperati gli ultimi avanzi delle ricchezze del Regno. Il suo numeroso corteggio era composto di Nobili, di guardie, di frati e di medici, cui venne aggiunta una brigata di musicanti; ambasceria dispendiosa che durò oltre a due anni. Al suo arrivo nella Georgia, o Iberia, gli abitanti delle città e de' villaggi si affoltarono attorno a questi stranieri, ed eran sì semplici che provavano grande diletto in udendo armoniosi suoni senza sapere da che derivassero. In mezzo a quella folla trovavasi un vecchio più che centenario, stato lungo tempo prigioniero de' Barbari53, e che allettava i suoi uditori raccontando le maraviglie dell'India54, dal qual paese per un mare incognito era tornato nel Portogallo55. Da questa ospite contrada, Franza continuò il suo viaggio fino a Trebisonda, ove dal Principe di quell'Impero intese la morte di Amurat recentemente seguìta. Anzichè allegrarsene, questo esperto politico fu preso da giusta tema che un Principe, giovane ed ambizioso, non rispetterebbe a lungo il sistema saggio e pacifico del padre suo. Dopo la morte del Sultano, Maria, vedova del medesimo56, cristiana e figlia del despota della Servia, era stata onorevolmente ricondotta alla sua famiglia. Mosso dalla rinomanza della beltà e de' pregi di questa Principessa, l'Ambasciatore la riguardò come la più degna su di cui la scelta dell'Imperatore potesse cadere; al qual proposito, lo stesso Franza racconta e combatte tutte le obbiezioni che su di tal parentado insorgeano. «La maestà della porpora, egli dice, basta per nobilitare un disuguale connubio, l'ostacolo della parentela può togliersi mercè la dispensa della Chiesa e il pagamento di alcune elemosine; la specie di macchia contratta dalla Principessa maritandosi con un Turco, è tal circostanza, alla quale si è data sempre passata». Aggiunge Franza, che benchè l'avvenente Maria toccasse da vicino i cinquant'anni, potea nondimeno sperar tuttavia di dare un erede all'Impero. Costantino ben accolse questo consiglio, che il suo Ambasciatore gli fe' pervenire valendosi della

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<p>44</p>

Vi erano due Dibras, Dibras Superiore, e Dibras Inferiore, uno nella Bulgaria, l'altro nell'Albania. Il primo distante settanta miglia da Croia (l. I, pag. 17) era contiguo alla Fortezza di Sfetigrado, i cui abitanti ricusarono di attinger l'acqua ad un pozzo, ove era stata usata la perfidia di gettare un cane morto (l. V, pag. 139-140). Una buona carta dell'Epiro ne manca.

<p>45</p>

Si paragoni il racconto del turco Cantemiro colla prolissa declamazione del prete Albanese (l. IV, V, VI), copiata da tutti quelli che vennero dopo.

<p>46</p>

Ad onore del suo Eroe, il Barletti (l. VI, p. 188-192) fa morire il Sultano sotto le mura di Croia, di malattia per dir vero; ma questa ridicola favola è smentita dai Greci e dai Turchi, che convengono unanimemente sul tempo e sulle circostanze della morte di Amurat avvenuta dopo.

<p>47</p>

V. le sue imprese in Calabria, ne' libri IX, X di Marino Barletti, ai quali può contrapporsi la testimonianza, o il silenzio del Muratori (Ann. d'Ital. t. XII, p. 291) e dei suoi Autori originali (Giovanni Simoneta, De rebus Francisci Sfortiae, in Muratori, Script. rerum Ital., tom. XXI, p. 728, ed altrove). La cavalleria albanese divenne ben tosto famosa in Italia sotto il nome di Stradiotti (Mém. de Comines, l. VIII, c. 5).

<p>48</p>

Lo Spondano, fondato sopra ottime autorità e giudiziose considerazioni, ha ridotto il colosso di Scanderbeg a proporzioni ordinarie (A. D. 1461, n. 20; 1463, n. 9; 1465, n. 12, 13; 1467, n. 1). Le lettere che lo stesso Scanderbeg scriveva al Papa e la testimonianza di Franza, riparatosi a Corfù, vicino al luogo dell'asilo sceltosi dall'Albanese, ne dimostrano le angustie cui si vide questi ridotto, angustie che Marino cerca palliare con poco garbo (l. X).

<p>49</p>

V. intorno alla famiglia de' Castriotti il Ducange (Fam. Dalmat., XVIII, p. 548-550).

<p>50</p>

Colonia d'Albanesi citata dal sig. Swinburne nel suo viaggio alle Due Sicilie (vol. I, p. 350-354).

<p>51</p>

Chiara ed autentica è la Cronaca di Franza, ma invece di quattro anni e sette mesi, lo Spondano (A. D. 1445, n. 7) attribuisce sette o otto anni al regno dell'ultimo Costantino, fondandosi sopra una lettera apocrifa di Eugenio IV al Re di Etiopia.

<p>52</p>

Il Franza (l. III, c. 1, 6) è meritevole di confidenza e di stima.

<p>53</p>

Supponendo che cotest'uomo fosse preso nel 1394, allorchè Timur invase la Georgia la prima volta, (Serefeddino l. III, cap. 50), egli è possibile che abbia seguito il suo padrone tartaro nell'Indostan, nell'anno 1398, e di lì siasi imbarcato per le Isole degli aromi.

<p>54</p>

I felici e virtuosi Indiani vivevano oltre a cencinquanta anni, e possedevano le più perfette produzioni de' regni vegetabili e minerali; gli animali vi erano di statura gigantesca, draghi di settanta cubiti, formiche lunghe nove pollici (formica indica), pecore grandi come gli elefanti, e anche elefanti grandi come pecore. Quidlibet audendi… etc.

<p>55</p>

Il nostro centenario s'imbarcò in una nave che veleggiava alle Isole degli aromi, per trasferirsi a uno de' porti esterni dell'India, invenitque navem grandem ibericam qua in Portugalliam est delatus. Un tal passaggio descritto nel 1477 (Franza, l. III, c. 30), vent'anni avanti la scoperta del Capo di Buona Speranza, è immaginario, o miracoloso; però questa singolare geografia sente l'antico e vecchio errore che collocava le sorgenti del Nilo nell'India.

<p>56</p>

Cantemiro che chiama la figlia di Lazzaro Ogli, l'Elena de' Serviani, mette l'epoca delle sue nozze con Amurat nell'anno 1424. Non sarà cosa sì facile da credersi che durante ventisei anni in cui stettero insieme il Sultano corpus ejus non tetigit. Dopo la presa di Costantinopoli, ella si rifuggì presso Maometto II, Franza (l. III, c. XXII).