Due. Dispari. Federico Montuschi
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Gli era toccata la sorte di non avere la valigia ispezionata e, superato anche il controllo dei documenti, aveva tirato un sospiro di sollievo, rendendosi conto proprio in quel momento che la fuga dal proprio torbido passato si era realmente concretizzata.
Fuori pioveva, una pioggia fine ma costante, fastidiosa, che gli penetrava prima nell’anima che nelle ossa.
Uscendo dall’aeroporto, si era infilato nel primo taxi disponibile e, in uno spagnolo un po’ stentato, ma comunque dignitoso, aveva chiesto al tassista di portarlo al quartiere italiano.
Il tassista, un tipo basso e sudato, con un mozzicone di sigaretta appeso alle labbra, lo aveva guardato strano.
Quel ragazzone biondo, alto, muscoloso, con la camicia a quadri e i Ray-Ban appoggiati alla fronte, nonostante fuori il buio avesse già abbracciato le stradine mal illuminate nella zona circostante l’aeroporto, gli ricordava il personaggio di un videogioco che lo aveva accompagnato anni addietro, ai tempi della scuola superiore.
Duke Nukem, se non ricordava male.
Il ragazzo viaggiava con un solo bagaglio e non smetteva di guardarsi in giro con occhi da furetto, che si spostavano con incredibile rapidità da destra a sinistra, mentre il capo si manteneva immobile.
«Non esiste un quartiere italiano a San José, signore» aveva sentenziato il tassista, senza girarsi.
Dal sedile posteriore non era giunto alcun commento.
Incerto sul da farsi, il tassista era rimasto a osservare nello specchietto retrovisore la reazione del ragazzo.
Nulla.
Nessun movimento di muscoli facciali, nessuna reazione emotiva.
Nessun tick nervoso.
Il tassista aveva aspirato una profonda boccata da quel che rimaneva del mozzicone di sigaretta e aveva atteso, tamburellando le dita sull’appoggia braccio della sua Citroen Picasso blu.
La pioggia insisteva sul parabrezza e sul lunotto posteriore con martellante monotonia, ma questo non sembrava scomporre il passeggero.
Il tassista si era sentito nell’obbligo di rompere quel silenzio che lo stava mettendo in uno strano imbarazzo:
«Non le voglio mettere fretta, ma per correttezza le dico che il tassametro è già partito».
«La ringrazio. Parta pure».
«E dove vado? Le ho detto che a San Josè non esiste una comunità italiana, mi spiace».
«Parta per favore. Faremo un giro nella zona circostante alla città. Le dirò io quando fermarsi, non si preoccupi».
Il ragazzo sembrava gentile.
Il tassista non era abituato ad avere passeggeri che utilizzassero frequentemente forme quali «la ringrazio», «per favore» o «non si preoccupi».
Aveva ingranato la prima ed era partito, accelerando poco a poco, cercando di staccare il meno possibile lo sguardo dallo specchietto retrovisore.
Quel ragazzo da un lato lo intrigava, ma al tempo stesso lo spaventava, o qualcosa di simile.
Aveva uno sguardo furtivo e innaturalmente rapido e non smetteva di accarezzare impercettibilmente la sua valigia, che non aveva voluto riporre nel bagagliaio, quasi in trance.
«Ha fatto un lungo viaggio?» aveva chiesto il tassista, più per prassi che per reale interesse.
Era la domanda più banale da rivolgere a un passeggero in arrivo da un volo intercontinentale.
«Sì. È la prima volta che prendo l’aereo. A dire il vero è anche la prima volta che esco dall’Europa».
«Lei è italiano?».
«Sì…» aveva risposto il ragazzo quasi sovrappensiero, salvo poi correggersi subito «… cioè no. Sono slavo, ma ho sempre vissuto in Italia. Manco lo parlo, lo slavo, ho vissuto in Jugoslavia fino a quattro anni, poi è scoppiata la guerra civile e i miei genitori sono scappati in Italia. Ho imparato l’italiano e ho dimenticato lo slavo».
«È scoppiata una guerra civile in Jugoslavia?».
Il tassista si era vergognato della propria ignoranza nell’istante stesso in cui aveva terminato di porre la domanda, ma ormai era tardi e la risposta del ragazzo non si era fatta attendere.
«Già, è scoppiata una guerra, anzi, sono scoppiate diverse guerre… e che guerre! La federazione si è fatta letteralmente a pezzi, negli anni novanta. Prima la Slovenia, poi la Serbia, la Croazia, il Montenegro… e tutte le altre regioni a ruota, una dopo l’altra, guerre interne massacranti, con la comunità internazionale che stava a guardare. Meglio non commentare, davvero».
Il tassista, pentito di aver posto quella domanda così sconveniente per reggere il dialogo con uno sconosciuto, aveva deciso di lasciare per qualche istante un silenzio denso di pensieri per entrambi.
Era stato il ragazzo a riprendere la conversazione.
«Qui da voi invece le cose sono più tranquille, vero?».
«Beh, noi siamo la Svizzera del Centro America, non lo sapeva?».
«Francamente, no».
«Noi, dopo la guerra civile del 1948, abbiamo dismesso l’esercito. A cosa serve un esercito in un paese come il nostro? Il governo ha destinato le risorse militari all’istruzione e alla cultura. Ne siamo molto fieri. I nostri ragazzi studiano, invece di combattere. Pura vida, signore, pura vida».
Gli occhi del tassista si erano illuminati.
Era infinitamente orgoglioso della propria nazionalità e non perdeva occasione, durante ogni viaggio dall’aeroporto verso la città, di decantare ai propri passeggeri le lodi del Costarica, terra unica, costellata di ricchezze naturali e di un patrimonio culturale, oltre che umano, inimitabile.
«E lo sa, signore, che il Costarica ha l’indice medio di felicità più alto del mondo?» aveva proseguito, entusiasta.
Il ragazzo aveva risposto senza troppa enfasi.
«E cosa sarebbe, questo indice medio di felicità?».
«Semplice,» aveva ripreso il tassista «si tratta di una statistica elaborata a livello mondiale su centoquarantanove paesi, basata su un questionario che prevede un’unica domanda: in una scala da zero a dieci, quanto si sente soddisfatto, complessivamente, della sua vita?».
«Interessante; e quali sono i risultati?».
«Beh, il Costarica è primo in classifica. Indice medio di felicità superiore a nove punti. Pura vida, eh?».
«Già…» aveva concluso il passeggero laconicamente, quasi in contrapposizione all’entusiasmo del tassista, continuando ad accarezzare la valigia.
Non aveva dato seguito alla discussione, distratto dall’arrivo di un temporale e di un