Due. Dispari. Federico Montuschi

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Due. Dispari - Federico Montuschi

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tassista sarebbe piaciuto continuare a tessere lodi della sua amata terra, dalla quale non si era mai allontanato in trent’anni di vita, ma, nonostante gli sforzi, non aveva trovato alcuno spunto interessante per riempire il momento di silenzio che si era creato, inondato unicamente dal ticchettio della pioggia pesante sui vetri del taxi.

      L’auto si era fermata a un semaforo.

      Il tassista si era girato per un attimo verso il ragazzo, lo aveva guardato di sfuggita e il suo ghigno indecifrabile gli aveva provocato un disagio che si sarebbe risparmiato volentieri.

      Era ripartito premendo a fondo il piede sull’acceleratore, come se volesse fuggire dalla situazione che si era creata e, seguendo una strada quasi deserta immersa nell’oscurità, aveva raggiunto in breve tempo le campagne circostanti l’aeroporto.

      Il ragazzo non aveva smesso di guardarsi attorno e sembrava apprezzare quel vagabondaggio senza meta.

      «Dove siamo?» aveva chiesto dopo qualche minuto di silenzio.

      «Siamo nei pressi di Burgos, signore».

      Il passeggero aveva scrutato l’orizzonte fuori dal finestrino del taxi scorgendo, in lontananza, un paesino abbarbicato alle basse montagne del Costarica centrale.

      Il buio ovattava i pochi rumori che provenivano da fuori.

      Il temporale aveva lasciato spazio a un meraviglioso cielo stellato e a un intenso odore di zolfo, che aveva ricordato al ragazzo la sua infanzia in montagna.

      Memoria olfattiva, la più radicata nei sensi dell’uomo.

      «Burgos, ha detto? Perfetto. Mi lasci qui, per favore. Mi piace».

      Il tassista aveva raggiunto in breve tempo il centro del paese, nel quale la locanda Hermosa contendeva da anni alla chiesa di San Isidro il dominio architettonico su piazza Allende.

      Aveva accostato nei pressi dell’ingresso e, senza spegnere il motore, era sceso per aprire la porta al ragazzo.

      «Sono trentacinquemila colon, signore» aveva detto senza guardarlo negli occhi, quasi vergognandosi con se stesso per la disonestà di quel prezzo.

      Il ragazzo non aveva battuto ciglio, affondando la mano nella tasca laterale dei pantaloni ed estraendo un portafogli gonfio da sembrare sul punto di esplodere.

      Apertolo, aveva fatto scivolare nelle mani del tassista quattro banconote da diecimila colon.

      Prima che lo richiudesse, il tassista era riuscito a fissare per un attimo quel portafogli.

      Non aveva mai visto così tanto contante fra le mani di una persona.

      Ma non aveva avuto il tempo per farsi domande strane, perché il ragazzo lo aveva congedato nel migliore dei modi possibili, dal suo punto di vista.

      «Tenga pure il resto. La ringrazio. Buon rientro, buona notte».

      ***

      In una comunità ristretta come quella di Burgos non era facile ricoprire l’incarico d’ispettore privato, soprattutto per uno come Castillo che aveva deciso di rifiutare, a prescindere, qualsiasi tipo di indagine legata a possibili infedeltà coniugali.

      Per questo, in nome della propria coscienza deontologica, o, che dir si voglia, dell’amor proprio che sempre lo aveva guidato nei momenti di decisione, negli ultimi mesi non aveva trovato neanche un incarico, eccezion fatta per un’indagine su una truffa ai danni di una nonnina che si era vista sparire dalla notte alla mattina i risparmi di una vita dal conto corrente.

      Una bazzecola, per uno come lui.

      Aveva risolto il caso in meno di tre giorni, grazie anche ai propri amici di San José, vecchi compagni del comando di polizia nazionale, che, tramite analisi incrociate sui movimenti bancari dei parenti della signora, avevano individuato facilmente la mela marcia della famiglia, un nipote dal curriculum apparentemente immacolato ma noto alle forze dell’ordine locali per il consumo smodato di droghe sintetiche.

      Non era la prima volta che la polizia gli passava delle indagini; succedeva soprattutto quando, come nel caso della nonnina, il comando di San José era impegnato su operazioni ben più importanti - quella volta si era trattato di narcotraffico internazionale - non sapendo che farsene di banalità di quel tipo.

      In quelle circostanze la polizia si rivolgeva a lui, con una sorta di subappalto, sapendo di andare sempre a colpo sicuro.

      Incarico consulenziale, con clausola di pagamento ex post, a caso risolto; il tutto senza alcuna formalizzazione, fra persone di fiducia ci si intende così e lui, dopotutto, era un ex collega che, dopo anni di onorato servizio, si era messo in proprio, ma aveva mantenuto tutti i contatti importanti che si era creato soprattutto nei tre anni in cui aveva ricoperto il ruolo di capo della polizia nazionale.

      Era stato un periodo duro, con quel ruolo così importante, di un’intensità mai provata prima: tre anni di sfide professionali da responsabile della polizia della capitale.

      Un sogno, da bambino.

      Ma poi la signora Conchita era stata malamente investita sulle strisce pedonali di un incrocio a San José da un povero ubriaco che cercava nella bottiglia un’improbabile consolazione alle proprie pene d’amore, e i dottori avevano detto a Castillo che la moglie, operata d’urgenza, sarebbe dovuta rimanere a riposo per almeno sei mesi.

      E Castillo aveva avuto l’occasione per rivalutare a freddo la propria situazione, riconsiderandola alla luce della nuova emergenza.

      Pura vida era stato il tema ispiratore nei momenti chiave della sua esistenza.

      Era un’espressione la cui semplicità era inversamente proporzionale alla rilevanza del messaggio che trasmetteva.

      Si era reso conto che, in quel particolare momento, pura vida significava poter lavorare a cinque minuti da casa, poter affiancare anche tutti i giorni, se necessario, la signora Conchita nella faticosa riabilitazione, poter seguire da vicino la crescita delle figlie, al tempo in piena adolescenza.

       Pura vida.

      La decisione fu presto assunta: il poliziotto Castillo, capo del comando di polizia nazionale a San José, riconsegnò la stella argentata al responsabile dell’ufficio del personale, accompagnata da una lettera di dimissioni irrevocabili per motivi familiari; affittò un bilocale sfitto nel centro di Burgos, proprio di fianco alla locanda Hermosa, e vi attaccò all’ingresso una vecchia placca dorata recuperata nel solaio di casa, regalo di qualche Natale precedente dei colleghi del comando per la risoluzione di un intricato caso di sfruttamento della prostituzione minorile, sulla quale con un punteruolo d’acciaio cancellò, con lavoro certosino, la parola «Grazie», sovrascrivendola con «Isp.».

      Gli sarebbe piaciuto completare l’opera, scrivendo per intero «Ispettore», ma la fatica esagerata che gli era costata incidere le prime tre lettere lo fece desistere.

      «Isp. Castillo», recitava la nuova targa.

      Artigianale, ma efficace.

      Lui si sentì rinascere.

      Il paese di Burgos aveva finalmente un ispettore privato e lui, ancora una volta, aveva seguito il suo cuore per una decisione importante.

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