Il Terrore Privato Il Terrore Politico. Guido Pagliarino
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Читать онлайн книгу Il Terrore Privato Il Terrore Politico - Guido Pagliarino страница 10
âI medici cosa ne dicono?â
âNessuna curaâ, aveva ripreso la parola lâinteressato.
Gli aveva chiesto Vittorio: âDopo che torna in sé, lei non rammenta nemmeno qualcosina, che so, anche solo un flash dâimmagini o un quid di suoni?â
âDopo esser tornato dal rapimento, come lo chiamo io, non ricordo assolutamente niente. Lei capisce che mi sarebbe impossibile conservare un lavoro; ci avevo provato, sa? dopo la morte di mia madre, impiegandomi presso un geometra, ma⦠insomma, era stato un dramma. Mâero dimesso io stesso, per non mettere in imbarazzo il principale e i colleghi. A parte queste cose personalissime, questore DâAiazzoâ â aveva calcato su personalissime mentre, per un attimo, gli occhi gli erano divenuti non belli â âio non so quanto possa servire, a loro della Polizia, parlare con me dei delitti di quellâassassino seriale: quello che so sulle vittime, lâho già detto al pubblico ministero. Comunque, sono disposto a risponderle, ma lei mi chieda con precisioneâ: aveva parlato in tono deciso, come lâuomo abituato a dar ordini che doveva essere stato ai tempi della sua attività dâimpresa.
âComâerano i vostri rapporti col personale?â
âNon erano soddisfacenti. Come avevo già detto al giudice, il personale era negligente, sebbene noi facessimo appieno il nostro dovere di leggeâ.
âQuei cinque uccisi dal Mostro erano solo negligenti, oppure indisciplinati o⦠persino qualcosa di peggio? Sappiamo châerano anni di contestazione durissima nelle aziendeâ.
âSenta, questore, magari le dico prima qualcosa sulla mia famiglia, così capirà meglioâ.
âCasata ottima!â non sâera trattenuto il parroco.
âTi ringrazio, don Giulio. Ebbene, questore, mio padre, orfano di padre artigiano morto in un incidente sul lavoro, aveva dovuto iniziare a lavorare allâetà di dodici anni, come apprendista e poi come muratore presso uno zio, piccolo artigiano edile. Però suo desiderio era salire e, stringendo i denti, aveva studiato da geometra frequentando una scuola serale. Nonostante gli ostacoli, era giunto al diploma a soli diciannove anni. Ne era seguito un impiego municipale conquistato per concorso. Lâaveva però dovuto lasciare quasi immediatamente, perché era stato chiamato alle armi con la propria leva. Sâera ormai in guerra ed egli aveva servito in Sicilia in una delle batterie costiere, come sottotenente di complemento. Nel luglio 1943, durante lo sbarco anglo americano, era stato fatto prigioniero con tutto il suo reggimento e relegato in un campo del Texas, da cui era stato rimpatriato solo a fine guerra, riprendendo, comâera nel suo diritto, il proprio posto nel Comune di Torino. Era stato allâinizio del 1947 che mio padre aveva conosciuto mia madre, durante una serata a casa di comuni amici. Mamma diceva châera stato immediato lâinnamoramento fra papà e lei, seguito dopo breve tempo dalla decisione di sposarsi. Intanto mio padre aveva cambiato lavoro, assunto come direttore tecnico dalla piccola azienda che sarebbe divenuta quella di famiglia. Mia nonna paterna era ormai morta, fin dai primi giorni di guerra, mitragliata per strada dal pilota dâuno di quei caccia-cecchini francesi che la propaganda fascista chiamava con dileggio i Pippo, ma che facevano non poco male aglâinnocenti civili. Anche la nonna materna era rimasta uccisa in guerra, sotto il gran bombardamento di Torino nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1943, quando mia madre aveva da poco compiuto i ventâanni. Solo il nonno materno, direttore di banca, era sopravvissuto al conflitto, ma era poi mancato dâinfarto lâanno successivo al matrimonio dei miei e mia madre ne aveva ereditato un discreto patrimonio: era il 1947. Due anni dopo, ero appena nato io, il proprietario della ditta dove lavorava papà aveva deciso di cederla e, grazie al capitale della mamma e a mutui bancari, i miei genitori erano subentrati. Gente seria, tutta dedita al lavoro e incapace di sperperare, sâerano fatta meritatamente una buona fortuna, restituendo i prestiti e poi investendo nellâazienda, creando posti di lavoro e, a mano a mano, impiegando denaro pure in qualche appartamento. Avevano sempre e solo lavorato duro e avrebbero meritato elogi e, mai e poi mai, attacchi dai dipendenti, châessi tenevano doverosamente in regola e che pagavano puntualmente, a differenza di certi concorrenti. Invece, dal 1976 lâazienda era stata aggredita dal personale, nel disprezzo per i sacrifici continui dei miei genitori. Ovviamente contrariavano pure me, anzi anche di più perché avevo avuto quella che si usa dire la pappa fattaâ.
âEra stata unâingiustizia, Attilioâ, gli era stato solidale don Giulio, avvicinatosi di più, ponendogli la mano destra sulla spalla sinistra; e così Vittorio aveva notato che il prete non era mancino.
Il mio amico aveva chiesto allâarchitetto: âQuando, precisamente, lei era entrata in azienda?â
âAlla fine del 1975, a ventisei anni. Fino ad allora avevo vissuto la parte migliore della mia vita, sino a quando cioè, laureatomi in architettura e svolto il servizio militare, ero stato associato in ditta dai miei. Con lâaggravarsi in generale della protesta sociale, anche da noi gli attacchi erano divenuti duri, e, peggio, sâerano ulteriormente appesantiti dopo che avevamo assunto, quasi contemporaneamente, due elementi negativissimi: Maria Capuò, la nana come la si chiamava tra di noi, ché credo non superasse il metro e quarantacinque, e Giovanna Peritti, la Pasionaria di Mirafiori comâella stessa si vantava dâesser chiamata dai suoi compagni di partito. Erano presto divenute le caporione dei contestatori della nostra vulnerabile aziendina familiare. A causa dei sistematici attacchi del personale, il morale di noi tre proprietari sâera sempre più depresso. In piena protesta aziendale, la mia sofferenza e quella di mia madre sâerano aggravate, e di molto, perché era morto mio padre, per un ictus, provocato indirettamente, ne sono certo, da quella Giovanna Peritti: il giorno prima della sua morte, così lui ci aveva poco dopo riferito, papà le aveva dato una disposizione e lei, senza neppur ascoltarlo sin in fondo, lâaveva insultato dicendogli: âVecchio scemo, cosa ne capisci tu che sei un fascista?!â dandogli una spinta che, essendo lui piuttosto anziano, lâaveva buttato a terra. Non câerano stati testimoni, ovviamente, anche noi eravamo di là , in ufficio, la donna era furba e se lâera cavata senza pagare pegno: mancando testimoni sarebbe stato inutile denunciarla, anzi dannoso, e senza denuncia non era stato possibile mandarla via, a causa dello Statuto dei Lavoratoriâ.
âAvevate dunque molti dipendentiâ.
âNo, questore, ma più di quindici sì, purtroppo, numero oltre il quale lo Statuto imponeva di fornire la cosiddetta giusta causa per poter licenziare: anche alle aziendali familiari come la nostraâ.
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