Il Dono Della Battaglia . Морган Райс

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Il Dono Della Battaglia  - Морган Райс L’Anello Dello Stregone

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vita, lo sapeva: sarebbe sempre stata guardata come qualcosa di strano.

      “Mi trovi disgustosa adesso?” gli chiese con voce rotta dalla disperazione.

      Lui tenne la testa bassa e non rispose.

      “Molto bene,” disse Volusia dopo un lungo silenzio, determinata ad eseguire la sua vendetta su qualcuno. “Allora ti ordino di guardare il volto che odi di più. Mi darai prova che sono bellissima. Dormirai con me.”

      Il comandante alzò lo sguardo e la guardò negli occhi per la prima volta con paura e orrore stampati in volto.

      “Mia dea?” le chiese con voce rotta, terrorizzata, sapendo che avrebbe dovuto affrontare la morte se le avesse disobbedito.

      Volusia sorrise, felice per la prima volta, rendendosi conto che si trattava di una vendetta perfetta: giacere con l’uomo che la trovava più ripugnante.

      “Dopo di te,” disse facendosi da parte e indicando la stanza.

      *

      Volusia si trovava di fronte alla grande finestra ad arco al piano superiore del palazzo della capitale dell’Impero e mentre il sole sorgeva e le tende le sfioravano il viso, piangeva in silenzio. Poteva sentire le lacrime che gocciolavano sulla parte buona del suo volto, ma non dall’altra parte, quella sciolta. Lì era insensibile.

      Un leggero russare risuonava nell’aria e Volusia si diede un’occhiata alle spalle vedendo Brin steso lì, ancora addormentato con il volto contorto in un’espressione di disgusto anche nel sonno. Aveva odiato ogni momento del suo incontro con lei, lo sapeva, e questo le aveva concesso una piccola vendetta. Ma ancora non si sentiva soddisfatta. Non poteva lasciarla passare liscia ai Voks e aveva necessità di vendicarsi oltre.

      Quello era un piccolo pezzo di vendetta, una minuscola parte di ciò che desiderava. I Voks del resto erano scomparsi mentre lei, la mattina successiva, era ancora viva, ancora incastrata con se stessa come sarebbe stata per il resto della sua vita. Imprigionata in quell’aspetto, in quel volto sfigurato che lei stessa non poteva sopportare.

      Volusia si asciugò le lacrime e guardò fuori, oltre il confine della città, oltre le mura della capitale, verso l’orizzonte. Mentre i soli sorgevano iniziava a vedere le deboli tracce degli eserciti dei Cavalieri del Sette, con i loro stendardi all’orizzonte. Erano accampati là fuori e stavano mettendo insieme i loro eserciti. La stavano lentamente circondando raccogliendo milioni di soldati da ogni angolo dell’Impero, tutti pronti ad invadere. Ad annientarla.

      Accettava il confronto. Non aveva bisogno dei Voks, lo sapeva. Non aveva bisogno di nessuno dei suoi uomini. Poteva ucciderli da sola. Dopotutto era una dea. Aveva lasciato il regno dei mortali da molto e ora era una leggenda, una leggenda che nessuno – nessun esercito al mondo – poteva fermare. Li avrebbe accolti da sola e li avrebbe uccisi tutti una volta per tutte.

      Poi alla fine non ci sarebbe stato più nessuno ad affrontarla. Allora il suo potere sarebbe stato supremo.

      Volusia udì un rumore dietro di lei e con la coda dell’occhio scorse del movimento. Vide che Brin si alzava dal letto gettando via le lenzuola e iniziando a vestirsi. Lo vide muoversi furtivamente, attento a fare piano, e si rese conto che intendeva scivolare fuori dalla stanza prima che lei lo vedesse, così da non essere costretto a guardarla in faccia. Questo unì ulteriore insulto alla già presente ingiuria.

      “Oh, comandante,” disse vagamente.

      Lo vide immobilizzarsi per la paura. Si voltò e la guardò controvoglia e lei gli sorrise torturandolo con il grottesco aspetto delle sue labbra deformi.

      “Vieni qui, comandante,” gli disse. “Prima che te ne vai c’è qualcosa che voglio mostrarti.”

      Lui si voltò e camminò lentamente attraversando la stanza e raggiungendola. Rimase lì vicino a lei guardando ovunque ma non il suo volto.

      “Non vuoi dare un piccolo bacio d’addio alla tua dea?” gli chiese.

      Lo vide rabbrividire, per quanto leggermente, e provò una fresca ondata di rabbia bruciarle dentro.

      “Non preoccuparti,” aggiunse con espressione di colpo più cupa. “Ma c’è almeno una cosa che voglio mostrarti. Dai un’occhiata. Vedi là fuori all’orizzonte? Guarda bene. Dimmi cosa vedi laggiù.”

      Lui si fece avanti e lei gli mise una mano sulla spalla. Lui si chinò in avanti ed esaminò con attenzione la linea dell’orizzonte aggrottando la fronte confuso.

      “Non vedo niente, mia dea. Niente di diverso dal solito.”

      Volusia sorrise sentendo il vecchio spirito di vendetta salire dentro di sé, sentendo il suo vecchio desiderio di violenza e crudeltà.

      “Guarda meglio, comandante,” disse.

      Lui si chino un po’ di più e con un rapido gesto Volusia lo afferrò per la camicia e con tutta la sua forza lo spinse dalla finestra.

      Brin gridò dimenandosi e volando in aria, cadendo per una trentina di metri fino ad atterrare morendo sul colpo nella strada di sotto. Il tonfo riverberò tra le strade altrimenti silenziose.

      Volusia sorrise guardando il suo corpo e sentendo finalmente un senso di vendetta.

      “Guardati,” rispose. “Chi fra noi due è il più grottesco adesso?”

      CAPITOLO DODICI

      Gwendolyn camminava attraverso i bui corridoi della torre dei Cercatori di Luce con Krohn al suo fianco, risalendo lentamente la rampa circolare che si dispiegava ai lati dell’edificio. La scala era fiancheggiata da torce e devoti al culto che stavano silenziosamente sull’attenti con le mani nascoste nelle loro tuniche. La curiosità di Gwendolyn si faceva man mano più profonda mentre continuavano a salire di un piano dopo l’altro. Il figlio del re, Kristof, l’aveva condotta per metà strada dopo il loro incontro, poi si era girato per scendere, dandole istruzioni su come completare la propria ascesa da sola per raggiungere Eldof, che poteva incontrare solo da sola. Per tutto il tempo che ne avevano parlato le era stato presentato come un dio.

      Un lieve canto riempiva l’aria pregna di incenso mentre Gwen saliva lungo la graduale rampa e si chiedeva: quale segreto sorvegliava Eldof? Le avrebbe dato la conoscenza di cui aveva bisogno per salvare il re e il Crinale? Sarebbe mai stata capace di recuperare la famiglia del re da quel posto?

      Quando ebbe svoltato un angolo, la torre improvvisamente si aprì davanti a lei e Gwen sussultò per ciò che vide. Entrò in una stanza altissima, con il soffitto a una trentina di metri e le pareti ricoperta da terra fino in cima di vetrate colorate. Una soffusa luce inondava la stanza colorandola di scarlatto, viola e rosa e donandole una qualità eterea. E ciò che rendeva il tutto ancora più surreale era un uomo seduto da solo in quel posto immenso, al centro della stanza, con una scia di luce che scendeva su di lui come ad illuminare lui e lui soltanto.

      Eldof.

      Il cuore di Gwen le batteva forte in petto vedendolo lì seduto dalla parte opposta della stanza, come un dio calato dal cielo. Sedeva lì con le mani raccolte nella sua tunica dorata e luccicante, la testa completamente calva e un enorme e magnifico trono fatto d’avorio con torce da entrambe le parti e una rampa di gradini che vi conduceva. Quella stanza, quel trono, i gradini che vi conducevano davano l’idea

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