Il Dono Della Battaglia . Морган Райс

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Il Dono Della Battaglia  - Морган Райс L’Anello Dello Stregone

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e ricoperta di sudore, con il cuore che le batteva a mille, Loti lasciò cadere incredula la zappa, spruzzata dal sangue del supervisore, e si scambiò un’occhiata con suo fratello. Ce l’avevano fatta.

      Loti poteva sentire le occhiate curiose degli altri schiavi attorno a lei e voltandosi vide che la stavano guardando tutti a bocca aperta. Stavano tutti appoggiati alle loro zappe senza più lavorare e li osservavano con orrore e incredulità.

      Loti sapeva di non avere tempo da perdere. Corse con Loc accanto, sempre incatenati insieme, fino alla zerta; prese la spada lunga dalla sella con entrambe le mani, la sollevò in alto e si voltò

      “Fai attenzione!” gridò a Loc.

      Lui si preparò mentre lei la abbassava con tutta la sua forza e tagliava le catene. Sprizzò scintille e lei sentì la soddisfacente libertà delle catene tagliate.

      Si voltò per andarsene, ma udì un grido.

      “E noi!?” gridò una voce.

      Loti si girò e vide altri schiavi che correvano verso di lei tendendo le catene. Si voltò di nuovo e vide la zerta che aspettava, sapendo che il tempo era prezioso. Voleva andare verso est il prima possibile, dirigersi verso Volusia, l’ultimo posto dove sapeva che Dario stava andando. Forse l’avrebbe trovato lì. Ma allo stesso tempo non poteva sopportare di vedere i suoi fratelli e sorelle incatenati.

      Loti corse in avanti attraverso la folla di schiavi tagliando catene a destra e a sinistra fino a che tutti furono liberi. Non sapeva dove sarebbero andati ora, ma almeno avevano la libertà di fare ciò che desideravano.

      Loti si voltò, montò sulla zerta e porse una mano a Loc. Lui le diede la mano buona e lei lo tirò in sella, poi diede un deciso colpo ai fianchi dell’animale.

      Mentre partivano Loti era entusiasta della sua libertà e in lontananza poteva già udire le grida dei supervisori dell’Impero che l’avevano vista. Ma non aspettò. Si voltò e indirizzò la zerta giù dal pendio, dalla parte opposta, galoppando nel deserto, lontano dai supervisori, verso la sua libertà.

      CAPITOLO NOVE

      Dario sollevò lo sguardo scioccato fissando negli occhi l’uomo misterioso inginocchiato davanti a lui.

      Suo padre.

      Mentre lo guardava negli occhi il senso del tempo e dello spazio svanirono e tutta la sua vita si immobilizzò per un momento. Tutto tornò improvvisamente a posto: quella sensazione che Dario aveva avuto fin dall’inizio, dal primo momento in cui aveva posato lo sguardo su di lui. L’aspetto familiare, quella certezza che gli aveva scosso la coscienza e che l’aveva pungolato fin dal loro primo incontro.

      Suo padre.

      La parola stessa non sembrava neppure reale.

      Eccolo lì, inginocchiato su di lui dopo avergli appena salvato la vita parando un colpo mortale da parte di quella bestia dell’Impero, un colpo che di certo l’avrebbe ucciso. Aveva rischiato la sua vita per entrare lì, solo, in quell’arena, proprio nel momento in cui Dario stava per morire.

      Aveva rischiato tutto per lui. Per suo figlio. Ma perché?

      “Padre,” disse Dario, più un sussurro che una voce, colmo di ammirazione.

      Dario provò un’ondata d’orgoglio rendendosi conto che era legato a quell’uomo, a quel bravo guerriero, il più bravo che mai avesse incontrato. Gli faceva sentire che forse anche lui sarebbe potuto essere un bravo guerriero.

      Suo padre allungò una mano e lo strinse con decisione. Lo tirò in piedi e Dario si sentì rinnovato. Si sentiva come se ci fosse un motivo per combattere, un motivo per andare avanti.

      Subito raccolse la sua spada caduta a terra, si voltò e insieme a suo padre affrontò l’orda di soldati dell’Impero che stava sopraggiungendo. Ora che le mostruose creature erano tutte morte, uccise da suo padre, era suonato un corno e l’Impero aveva spedito fuori una marea di soldati.

      La folla ruggì e Dario guardò gli orribili volti dei soldati dell’Impero che stavano per piombare loro addosso brandendo lunghe lance. Dario si concentrò e sentì il mondo che rallentava mentre si preparava a combattere per la sua vita.

      Un soldato lo attaccò e gli tirò una lancia contro il volto, ma Dario la schivò prima che gli colpisse l’occhio, poi ruotò e mentre il soldato si avvicinava lo placcò colpendolo alla tempia con l’elsa della spada e mandandolo a terra. Schivò un altro colpo di spada da parte di un soldato e attaccò di lato buttandosi in avanti e trafiggendolo al ventre.

      Un altro soldato lo attaccò di lato puntandogli la lancia contro il costato, muovendosi troppo velocemente perché Dario potesse reagire. Ma si sentì il rumore di legno che andava a scontrarsi con il metallo e voltandosi Dario fu grato di vedere che suo padre era apparso usando il bastone per bloccare la lancia prima che lo colpisse. Poi si fece avanti e colpì il soldato in mezzo agli occhi mandandolo a terra.

      Suo padre ruotò con il bastone e affrontò il gruppo di aggressori: il clic clac del suo bastone riempiva l’aria mentre deviava un colpo di lancia dopo l’altro. Suo padre danzava tra i soldati come una gazzella ondeggiante in mezzo agli uomini, e brandiva il suo bastone con una tale grazia, ruotando e colpendo i soldati espertamente, con colpi ben assestati alla gola, tra gli occhi, al diaframma, e facendoli cadere da ogni parte. Era come un fulmine.

      Dario, ispirato, combatteva a sua volta come un uomo posseduto da suo padre, tirando fuori tutta l’energia possibile da sé: colpiva e schivava facendo sbattere la sua spada contro quelle dei soldati e provocando scintille mentre avanzava temerario in mezzo al gruppo. Erano più grandi di lui, ma Dario aveva più spirito e diversamente da loro stava combattendo per la sua vita, e per suo padre. Riusciva a far cadere soldati a destra e a sinistra.

      L’ultimo soldato dell’Impero si lanciò contro di lui sollevando in alto la spada con entrambe le mani, ma Dario reagì buttandosi in avanti e colpendolo al cuore. L’uomo sgranò gli occhi e lentamente si immobilizzò cadendo a terra morto.

      Dario rimase in piedi accanto a suo padre, schiena contro schiena, respirando affannosamente e osservando il loro lavoro. Tutt’attorno a loro giacevano soldati dell’Impero morti. Avevano vinto.

      Dario sentiva che lì, accanto a suo padre, avrebbe potuto affrontare qualsiasi cosa il mondo gli avesse scagliato contro; sentiva che insieme erano una forza irrefrenabile. E gli pareva surreale di trovarsi effettivamente a combattere accanto a lui. Suo padre, che aveva sempre sognato come una grandioso guerriero. Del resto non era una persona ordinaria.

      Seguì un coro di corni e la folla esultò. Inizialmente Dario sperò che stessero esultando per la sua vittoria, ma poi delle enormi porte di ferro si aprirono dalla parte opposta dell’arena e capì che il peggio stava solo iniziando.

      Si udì il suono di una tromba, più forte che mai, e gli ci volle un momento per capire che non era uno strumento umano, ma il barrito di un elefante. Guardando il cancello il cuore gli batteva per l’attesa. Poi improvvisamente apparvero, con suo grande shock, due elefanti completamente neri con lunghe zanne bianche e scintillanti, i musi contorti per la rabbia mentre si lanciavano alla carica e barrivano.

      Il rumore scosse l’aria. Sollevarono le zampe anteriori e le calarono con un tonfo facendo tremare il terreno così forte che Dario e suo padre quasi persero l’equilibrio. In sella agli elefanti si trovavano soldati dell’Impero

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