Il Dono Della Battaglia . Морган Райс

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Il Dono Della Battaglia  - Морган Райс L’Anello Dello Stregone

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me ne occuperò con il tuo comandante stesso, e con mio cugino il re,” rispose Fithe con sicurezza portandosi accanto a lei e apparendo più convincente che mai.

      Stara sapeva che stava mentendo, come sapeva cosa stesse rischiando per lei. Di questo gli era immensamente grata. Fithe l’aveva sorpresa mantenendo la sua parola, facendo qualsiasi cosa in suo potere, come promesso, per aiutarla a lasciare il Crinale, per aiutarla ad avere una possibilità di andare a cercare Reece, l’uomo che amava.

      Reece. Il cuore di Stara le doleva al pensiero. Avrebbe lasciato questo posto, per quanto fosse sicuro, e avrebbe attraversato la Grande Desolazione, avrebbe attraversato gli oceani, avrebbe attraversato il mondo, tutto per una sola possibilità di dirgli quanto lo amasse.

      Per quanto odiasse mettere Fithe in pericolo, aveva bisogno di questo. Aveva bisogno di rischiare tutto per trovare colui che amava. Non poteva starsene al sicuro nel Crinale, non importava quanto glorioso, ricco e sicuro fosse, fino a che non si fosse riunita con Reece.

      I cancelli di ferro della piattaforma si aprirono cigolando e Fithe le prese un braccio accompagnandola mentre lei continuava a tenere basso il cappuccio, dato che quel travestimento funzionava. Scese dalla piattaforma di legno e si trovò sul duro altopiano di roccia del Crinale. Soffiava un vento ululante, abbastanza forte da farle perdere l’equilibrio, ma si tenne stretta alla criniera del cavallo con il cuore che batteva forte mentre sollevava lo sguardo e vedeva quella vastità, la pazzia di ciò che stava per fare.

      “Tieni la testa bassa e il cappuccio abbassato,” le sussurrò Fithe con urgenza. “Se ti vedono, se capiscono che sei una ragazza, sapranno che non dovresti essere qui. Ti rimanderanno indietro. Aspetta che raggiungiamo l’estremità del crinale. C’è un’altra piattaforma che aspetta di portarti giù dall’altra parte. Porterà te, te soltanto.”

      Il respiro di Stara accelerò mentre i due attraversavano l’ampio altopiano passando vicino ai cavalieri e camminando rapidamente. Stara teneva la testa bassa, lontana dagli occhi inquisitori dei soldati.

      Alla fine si fermarono e Fithe sussurrò: “Va bene. Guarda.”

      Stara tirò indietro il cappuccino, i capelli ricoperti di sudore, e subito rimase frastornata per la visuale: due enormi bellissimi soli ancora rossi si levavano nella gloriosa mattina ricoprendo il cielo di milioni di sfumature di rosa e viola. Sembrava l’alba del mondo.

      Guardando davanti a sé vide l’intera Grande Desolazione distesa lì davanti che sembrava allungarsi fino all’estremità del mondo. In lontananza c’era il furioso muro di sabbia e nonostante tutto Stara guardò in basso. Arretrò per la sua paura delle altezze e immediatamente desiderò non aver guardato.

      Là sotto vide la ripida discesa che portava alla base del Crinale. E davanti a lei vide una piattaforma solitaria, vuota, che la aspettava.

      Stara si voltò e guardò Fithe che la fissava con sguardo eloquente.

      “Sei sicura?” le chiese sottovoce. Stara poteva vedere nei suoi occhi la paura per lei.

      Provò una scossa di apprensione scorrerle attraverso il corpo, ma poi pensò a Reece e annuì esitante.

      Lui le fece cenno con gentilezza.

      “Grazie,” disse Stara. “Non so come potrò mai ripagarti.”

      Lui le sorrise.

      “Trova l’uomo che ami,” le rispose. “Se non posso essere io, che almeno sia qualcun altro.”

      Le prese la mano, la baciò, si inchinò e si voltò allontanandosi. Stara lo guardò andare con il cuore colmo di apprezzamento per lui. Se non avesse amato Reece come lo amava, forse sarebbe stato l’uomo giusto da amare.

      Stara si voltò, si fece determinata, si tenne alla criniera del cavallo e fece il primo fatidico passo sulla piattaforma. Cercò di non guardare la Grande Desolazione, il viaggio che sarebbe quasi sicuramente significato la sua morte. Ma lo fece.

      Le funi scricchiolarono, la piattaforma oscillò e mentre i soldati abbassavano le funi mezzo metro alla volta, iniziò a scendere, tutta sola, verso il nulla.

      Reece, pensò, Può darsi che io muoia. Ma attraverserò il mondo per te.

      CAPITOLO SEI

      Erec si trovava a prua sulla sua nave, Alistair e Strom accanto a lui, e scrutava le acque impetuose del fiume dell’Impero sotto di loro. Guardava le correnti che portavano la nave a sinistra dove il fiume si biforcava, lontano dal canale che li avrebbe condotti a Volusia, da Gwendolyn e dagli altri, e si sentiva distrutto. Ovviamente voleva salvare Gwendolyn, ma si sentiva anche in dovere di adempiere al sacro giuramento fatto a quegli abitanti liberati di salvare il villaggio vicino e spazzare via le guarnigioni dell’Impero che si trovavano lì. Dopotutto se non l’avesse fatto i soldati dell’Impero avrebbero presto ucciso gli uomini liberati e tutti gli sforzi di Erec per renderli liberi sarebbero valsi a nulla e il loro villaggio sarebbe finito nuovamente nelle mani dell’Impero.

      Erec sollevò lo sguardo e studiò l’orizzonte, cosciente del fatto che a ogni momento che passava, a ogni folata di vento, a ogni colpo di remo, si stavano allontanando sempre più da Gwendolyn, dalla sua originale missione. Eppure a volte sapeva che bisognava staccarsi da una missione per fare ciò che era più onorevole e giusto. Si rendeva conto che a volte la missione non era sempre ciò che si pensava fosse. A volte cambiava di continuo, a volte era un viaggio parallelo lungo un tragitto che terminava in una missione reale.

      Eppure Erec si era convinto dentro di sé di sconfiggere la guarnigione dell’Impero il più in fretta possibile e di prendere poi la biforcazione del fiume in direzione di Volusia per salvare Gwendolyn prima che fosse troppo tardi.

      “Signore!” gridò una voce.

      Erec sollevò lo sguardo e vide uno dei suoi soldati in alto sull’albero maestro che indicava l’orizzonte. Si voltò per guardare e mentre la nave svoltava a un’ansa del fiume e le correnti si facevano più forti, il suo sangue iniziò a scorrere più rapidamente vedendo un forte dell’Impero, pieno zeppo di soldati, arroccato sulla riva del fiume. Era uno scialbo edificio a pianta quadrata, fatto di pietra e di poco alto da terra, con supervisori dell’Impero disposti tutt’attorno, ma con nessuno che guardasse verso il fiume. Stavano invece osservando il villaggio di schiavi sotto di loro, gremito di abitanti che lavoravano sotto la frusta e il bastone dell’Impero. I soldati frustavano senza pietà gli schiavi, torturandoli nelle strade e facendoli lavorare duramente mentre loro guardavano e ridevano alla scena.

      Erec arrossì di indignazione, avvampando per l’ingiustizia di tutto questo. Si sentiva giustificato nell’aver portato i suoi uomini da questa parte del fiume ed era determinato a punire i torti e a fargliela pagare. Poteva benissimo trattarsi di una goccia nell’oceano della farsa dell’Impero, ma non si poteva mai sottovalutare, Erec lo sapeva bene, ciò che significasse la libertà anche per pochi uomini.

      Erec vide le coste piene di navi dell’Impero, sorvegliate con noncuranza dato che nessuno si aspettava un attacco. Ovviamente non si aspettavano nulla: non c’erano eserciti ostili nell’Impero, niente che il vasto contingente dell’Impero potesse temere.

      Cioè, niente tranne Erec.

      Erec sapeva che sebbene lui e i suoi uomini fossero in minoranza numerica, avevano ancora il vantaggio della sorpresa. Se fossero riusciti ad andare a segno abbastanza velocemente, forse avrebbero potuto batterli.

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