Quattro Destini. Powell Michael

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Quattro Destini - Powell Michael

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di essere liberati,” disse l'uomo. Sembrava confuso e indicò i turchi che se ne stavano andando. “Ci hanno lasciati per conto nostro e non si sono mai immischiati con noi. Non erano abbastanza.”

      Giuseppe era confuso. “Ma governavano l'isola, no? Li stiamo sostituendo e vi stiamo liberando.”

      “Ma liberarci da cosa? Non siamo prigionieri!”

      “Mi dispiace, non sono veramente in grado di spiegare, sono solo un marinaio. Cercherò di far venire una dei nostri ufficiali a parlare con voi. Nel frattempo, mi è stato chiesto di trovare delle sistemazioni per i miei uomini. Può aiutarmi?”

      “Sistemazioni?”

      “Alloggi – stanze per loro dove soggiornare.”

      “Intende hotel? In realtà non abbiamo nulla del genere qui.” Guardò in basso e pensò per un attimo, poi alzò lo sguardo, “I turchi avevano delle case. Se se ne sono andati, potreste mettere lì i vostri uomini. Ma non credo ci siano abbastanza stanze per tutti voi.”

      “Allora dovremo ospitare alcuni uomini nelle case private.”

      “Pagherete un affitto?”

      “Non so. Non credo.”

      L'uomo sembrò infastidito. “Affermate di venire a liberarci, ma mi sembra che siate peggio dei Turchi.” Si girò verso il gruppo di greci che erano in attesa dietro di lui e disse velocemente qualcosa in greco. Girandosi di nuovo disse, “vi porteremo dal sindaco. Dovrete spiegargli tutto.”

      Gramatika ordinò a Giuseppe di andare col vecchio, che condusse l'italiano in un altro ufficio dove un funzionario rubicondo, lo presentò al sindaco dell'isola, che, seduto dietro una grande scrivania, stava sudando copiosamente. “Ναι [Sì]?” disse.

      Seguì una discussione, con il sindaco che cominciò chiaramente ad agitarsi quando il vecchio spiegò quello che gli aveva detto Giuseppe. L'uomo si girò verso l'italiano, “Come le ho detto. Non avevamo bisogno di essere liberati e non abbiamo stanze a meno che non siate pronti a pagare.”

      Giuseppe era stupefatto. “Capisco. Dovrò parlarne con il mio comandante. Grazie.” Si girò, lasciò l'edificio, e ritornò a riferire quello che gli era stato detto.

      “Non vogliono essere liberati?” Gramatika era sconcertato. “Beh, non sta a loro decidere quello che vogliono,” proseguì in modo poco razionale, “li libereremo comunque. Spiegaglielo e di' loro di procurarci degli alloggi. Se non vogliono collaborare, dovremo obbligarli a farlo.”

      Giuseppe tornò nell'ufficio del sindaco. Il vecchio era ancora seduto su una sedia davanti alla scrivania, sulla quale c'era un vassoio rotondo di ottone sormontato da un treppiede con un grande anello in cima. Sul vassoio c'erano due piccole tazze vuote. Il sindaco salutò Giuseppe, indicandogli una sedia libera su cui si sedette l'italiano. “Kaffee?” chiese e, ricevendo un cenno d'assenso, urlò qualcosa a qualcuno presente nell'ufficio adiacente. Una segretaria entrò, sollevò il vassoio per l'anello e lo portò fuori dalla stanza. Non venne detto nulla fino a quando la donna ritornò portando il vassoio su cui ora stavano tre tazze del forte caffè dolce amato dai Greci e dai Turchi. Tutti presero una tazza. Giuseppe, abituato al forte espresso italiano, ne bevette una lunga sorsata, e rimase sorpreso dalla dolcezza del caffè e dal ritrovarsi la bocca piena dei residui presenti sul fondo della tazza. Li inghiottì, non volendo mostrare il suo disagio.

      Il sindaco disse qualcosa e il vecchio tradusse, “Quindi?”

      Giuseppe ripeté quello che gli era stato detto. I Greci dovevano trovare degli alloggi per gli italiani e non sarebbero stati pagati. L'isola era sotto il controllo italiano e il comandante italiano prometteva che le cose sarebbero andate per il meglio per i greci, ma si aspettava la loro cooperazione.

      Quando questo fu spiegato al sindaco, l'uomo emise un sospiro esasperato. “Molto bene, non possiamo combattervi e neppure vogliamo farlo,” tradusse il vecchio. “Troveremo delle stanze per i vostri uomini e speriamo che ci rispetterete e che ci permetterete di proseguire come facevamo prima che ci ‘liberaste’.” L'ultima parola fu detta con un tono sarcastico.

      Fu accordato non senza difficoltà che gli italiani che sarebbero rimasti sull'isola sarebbero stati messi inizialmente in case private vuote. Giuseppe, sollevato che fosse passata la freddezza iniziale, accettò l'offerta di un'altra tazza di caffè – assicurandosi questa volta di bere solo la piccola parte liquida in cima – e poi, dopo gli amichevoli saluti, lasciò l'ufficio e ritornò dai suoi uomini.

      Gramatika aveva ordinato agli uomini di sciogliere le righe e di rilassarsi. Erano seduti all'esterno di un piccolo bar, riparato dal sole da canne di bambù sorrette da una struttura di legno. Sembravano molto a loro agio e Gramatika invitò Giuseppe a sedersi a un tavolino vicino a lui. “Come è andata?”

      “Bene,” disse Giuseppe. “Sono d'accordo nel trovarci delle sistemazioni ora che si sono calmati. Anche se non sono particolarmente felici che abbiamo cacciato i turchi.”

      “No, l'avevo capito. Il nostro interprete è tornato pochi minuti fa e ci ha spiegato che gli è stato detto che la nostra forza di ‘liberazione’ è più come una forza di occupazione. Birra?”

      Prese il silenzio di Giuseppe come un assenso e chiamò la cameriera, “due birre”. Lei sollevò due dita e guardò in modo interrogativo, rientrando nel bar e ritornando con due birre quando lui annuì. Lui le porse una moneta che lei guardò sospettosamente e poi disse qualcosa in greco.

      “Sono soldi italiani,” disse, “Lira, capisce?”

      Lei scosse la testa, disse qualcos'altro e mise il denaro sul tavolo. In quel momento, arrivò il vecchio e Giuseppe lo chiamò. “Può spiegare alla ragazza che questi sono soldi italiani e che qui sono validi?”

      L'uomo si rivolse alla ragazza in greco. Lei guardò le monete, le prese e girandole lesse le iscrizioni. Il vecchio tradusse la sua risposta, “Non so cosa siano questi. Ora li prendo ma, se mi avete imbrogliata, mi lamenterò con il sindaco.”

      “E noi non vogliamo che accada, giusto?” disse Gramatika. Le porse altre monete. “Dovrebbero essere sufficienti.”

      Lei le guardò di nuovo con sospetto, poi, scuotendo la testa, ritornò nel retro del bar e le depositò con attenzione in cassa.

      “Questo è un'altra cosa che dovremmo sistemare – il denaro,” disse Gramatika con un sospiro.

      Dopo aver aiutato gli uomini a sistemarsi nei loro alloggi, Giuseppe fu sollevato quando gli fu ordinato di ritornare sulla nave per fare rapporto al Capitano.

      “Allora, Malpaiso, cosa faremo con lei ora? Ci servono degli ufficiali a terra per rendere questo posto una base per la nostra flotta. Questo significa che ci servono dei buoni ingegneri. Sarebbe una ottima opportunità per lei” disse il Capitano. “Vuole restare qui o continuare con noi?”

      “Sono onorato per avermi considerato, signore, ma preferirei restare con la nave – ho ancora molto da imparare.”

      Dopo aver lasciato Gramatika e un gruppo di soldati sull'isola, la San Marco si allontanò per unirsi al resto della flotta italiana. Tutte le isole del Dodecaneso erano state prese senza molti problemi, e la bandiera italiana sventolava su tutte le città principali delle isole.

      Navigarono a nord verso i Dardanelli, lo stretto che portava dalla parte nordorientale del Mar Egeo verso la capitale turca, Istanbul. Lì supportarono un attacco piuttosto blando dei caccia torpedinieri italiani contro le posizioni turche

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