Comando Primario: Le Origini di Luke Stone—Libro #2. Джек Марс
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La missione, altamente classificata, sarebbe fallita. Ma non era quella la parte peggiore. Neanche lontanamente. La parte peggiore era la presenza di Reed Smith stesso. Non poteva farsi catturare, a nessun costo.
“Davis, opzioni?”
“Potremmo provare a scappare con il sommergibile,” disse Davis. “Ma personalmente gli lascerei prendere questo rottame e vivere per combattere un altro giorno.”
Smith grugnì. Non riusciva a farsi venire in mente niente. Poteva solo decidere se morire in quella bolla oppure… non voleva pensare alle altre possibilità.
Fantastico. Di chi era stata quell’idea?
Tese una mano verso il polpaccio e aprì una zip dei suoi pantaloni cargo. Aveva una minuscola Derriger da due colpi legata alla gamba. Era una pistola per il suicidio. Strappò il nastro adesivo dalla pelle, senza sentire quasi niente nonostante i peli strappati. Si portò l’arma alla testa e fece un profondo respiro.
“Che cosa stai facendo?” domandò Bolger, con voce allarmata. “Non puoi sparare qua dentro. Farai un buco in questa cosa. Siamo a centinaia di metri sotto la superficie.”
Indicò la bolla che li circondava.
Smith scosse la testa. “Tu non capisci.”
All’improvviso il ragazzo delle forze speciali si erse dietro di lui. Si moveva come un grosso serpente. Gli afferrò il polso in una potente morsa. Come faceva a spostarsi tanto in fretta in uno spazio così ristretto? Per un momento, grugnirono e lottarono, senza riuscire quasi a muoversi. L’avambraccio del giovane uomo si tese contro la gola di Smith, e poi gli sbatté la mano sulla console.
“Lasciala!” ordinò. “Lascia la pistola!”
L’arma cadde. Smith spinse giù le gambe e si tese all’indietro, cercando di liberarsi del giovane.
“Non sai chi sono.”
“Smettetela!” urlò il pilota. “Smettetela di lottare! State colpendo i comandi.”
Smith riuscì ad alzarsi dal sedile, ma ormai l’altro era sopra di lui. Era forte, immensamente forte, e lo costrinse ad accovacciarsi tra la seduta e la parete del sottomarino. Lo spinse lì e lo fece raggomitolare a terra. Gli si chinò sopra, ansimando pesantemente. Il suo fiato di caffè soffiò all’orecchio di Reed Smith.
“Posso ucciderti, okay?” disse il giovane uomo. “Posso ucciderti. Se è necessario farlo, okay. Ma non puoi sparare un colpo qua dentro. Io e l'altro tizio vogliamo vivere.”
“Ho un grosso problema,” insistette Reed. “Se mi interrogano… Se mi torturano…”
“Lo so,” gli garantì l’altro. “Lo capisco.”
Si fermò, respirando affannato.
“Vuoi che ti ammazzi? Lo faccio, decidi tu.”
Reed rifletté. La pistola sarebbe stata un modo facile per farla finita. Non avrebbe dovuto pensarci tanto. Gli sarebbe bastato premere il grilletto e poi… qualsiasi cosa venisse dopo. Ma a lui piaceva vivere. Non voleva morire così presto. Magari sarebbe riuscito a cavarsela, e non avrebbero scoperto la sua identità. Forse non lo avrebbero torturato.
C’era la possibilità che i russi volessero solo confiscare il loro sottomarino altamente tecnologico, per poi proporre uno scambio di prigionieri senza tante domande. Forse.
Iniziò a respirare con più calma. Non sarebbe mai dovuto andare lì. Era vero che sapeva intercettare i cavi delle comunicazioni, che aveva esperienza nelle missioni subacquee e che era un abile agente. Ma…
L'interno del sommergibile era ancora illuminato da un chiarore accecante. I russi avevano appena assistito a tutto lo spettacolo.
Già quello gli sarebbe valso diverse domande.
Ma Reed Smith voleva vivere.
“Okay,” disse. “Okay. Non uccidermi. Fammi alzare, va bene? Non farò niente.”
Il ragazzo iniziò a levarsi in piedi. Non fu semplice. Lo spazio nel sommergibile era tanto stretto che erano come se fossero caduti e rimasti travolti dalla calca alla Mecca. Era difficile districarsi.
Dopo pochi istanti Reed Smith tornò nel suo sedile. Aveva preso la sua decisione. Sperò che fosse quella giusta.
“Accendi la radio,” disse a Bolger. “Vediamo che cosa vogliono quei buffoni.”
CAPITOLO DUE
10:15 a.m. Ora legale orientale
La Situation Room
La Casa Bianca, Washington, DC
“A quanto pare tutta la missione era mal concepita,” stava dicendo un assistente. “Il nostro problema è trovare una scusa plausibile.”
David Barrett, dall’alto dei suoi due metri, abbassò lo sguardo sull’uomo. L’assistente aveva capelli biondi e radi, era lievemente sovrappeso e portava un abito troppo largo sulle spalle e troppo stretto attorno alla vita. Si chiamava Jepsum. Era un nome infelice per un uomo altrettanto sfortunato. A Barrett non piacevano gli uomini più bassi di un metro e ottanta, né quelli che non si tenevano in forma.
Barrett e Jepsum stavano attraversando rapidamente i corridoi dell’Ala Ovest, diretti verso l’ascensore che li avrebbe portati alla Situation Room.
“Quindi?” disse Barrett, spazientito. “Questa scusa plausibile?”
Jepsum scosse la testa. “Ecco. Non ne abbiamo una.”
Una schiera di persone avanzava insieme ai due uomini, davanti a loro, dietro e tutt’intorno. Erano assistenti, stagisti, agenti dei Servizi Segreti, staff di vario genere. Come sempre Barrett non aveva idea di chi fosse una buona metà di quella gente. Era una massa confusa di umanità che gli sfrecciava accanto, e lui si ergeva di una testa sopra quasi tutti. Quelli più bassi avrebbero potuto essere persino di un’altra specie rispetto a lui.
La persone basse lo frustravano, ogni giorno sempre di più. David Barrett, il presidente degli Stati Uniti, era tornato a lavoro troppo presto.
Erano passate solo sei settimane da quando sua figlia Elizabeth era stata rapita dai terroristi e poi salvata dai commando americani in una delle missioni segrete più audaci nella storia recente. Lui aveva avuto un esaurimento durante la crisi. Aveva abbandonato il suo incarico, e chi avrebbe potuto biasimarlo? In seguito era stato così esausto, sfiancato e sollevato per il salvataggio della figlia da non avere le parole per riuscire a esprimerlo.
L’intero gruppo entrò in ascensore, pigiandosi come tante sardine in scatola. Insieme a loro c'erano due uomini dei Servizi Segreti. Erano entrambi alti, uno di colore e uno bianco. Le teste di Barrett e dei suoi custodi svettavano al di sopra di tutti gli altri nella cabina, come statue dell’Isola di Pasqua.
Jepsum lo stava ancora guardando dal basso, con occhi così accorati da sembrare quasi un cucciolo di