Scala E Cristallo. Alessandra Grosso

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Scala E Cristallo - Alessandra Grosso

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si sarebbe fermata. Le lacere corde che la

      brandivano erano disarticolate, in parte spellate e non

      integre; tuttavia erano resistenti. Tentai di tagliarle con il

      temperino preso dalla mia sacca, ma lei tendeva a sfuggirmi di

      mano ed era molto viscida a causa dell’olio spesso e

      impenetrabile. Una sostanza oleosa simile al bitume.

      Era scuro e quell’impresa mi causava fatica. Mi sentivo

      osservata dal bambino che mi stava rincorrendo, sentivo i

      brividi sulla schiena e temevo la morte in ogni instante, in

      ogni mio singolo respiro… Il bambino era la mia coscienza e

      non mi dava pace.

      La coscienza è quella cosa che tiene sveglio di notte e ti

      fa osservare a lungo un soffitto sempre uguale.

      Ti fa percorrere passato e futuro in un attimo, vedi tutta

      la vita in un attimo e poi devi decidere, devi decidere

      secondo coscienza.

      E decisi: avrei tentato di salvare la bambina. Potevo

      morire io, potevo essere fatta a pezzi ma dovevo superare la

      prova; dovevo cambiare ed essere più forte.

      La forza si impara anche cammin facendo e io volevo che

      fosse così per la mia vita, non volevo più scappare se non

      quando fosse stato strettamente necessario. Qualcosa in me

      stava cambiando e alla fine, forse, era giusto così. Era un

      desiderio di pace e giustizia che paradossalmente mi spingeva

      a lottare, un misto di bontà e dignità che è insito nei

      guerrieri buoni delle storie che mi raccontavano da piccola.

      Era la non accettazione del male, mai e senza nessun

      compromesso, perché di compromessi per troppa bontà ne avevo

      presi troppi ed ero ricorsa alla fuga, all’umiliazione e a un

      deprimente sentimento di bassa autostima. La depressione non

      la volevo più, volevo combatterla. Volevo salvare la bambina

      che ciondolava, perché in quel pendolo di incertezze vedevo me

      stessa, in bilico tra una decisione e l’altra, confusa e

      insicura.

      Dovevo agire istintivamente quando la bambina sarebbe

      arrivata a metà percorso. Avrei tentato di tagliare la corda,

      il problema era: con cosa?

      Avrei potuto provare con il temperino con cui tagliavo la

      carne secca oppure interi rami delle piante di bacca di cui

      andavo tanto ghiotta. Era un piccolo temperino ed era

      abbastanza malconcio… dovevo però agire in fretta ed essere

      precisa, perché avevo un altro mostro non lontano da me.

      Mi lanciai a testa bassa, pensando che poteva essere mia

      figlia e che avevo il dovere morale di salvarla, o almeno di

      provarci. Il coltello tagliò rapidamente la prima parte della

      corda poiché macilenta, ma poi si fermò.

      Più provavo e meno riuscivo a tagliare.

      Sentivo ridere alle mie spalle e provavo un gelo dentro di

      me, un brivido che mi percorreva la schiena facendomi tremare

      le braccia. I miei arti tremavano ma non la mia volontà, e

      capii che l’oscuro bambino era il bambino che mi rincorreva e

      che in quel momento si presentava davanti a me, gli occhi

      verdi e terribili.

      Aveva nascosto nella corda delle piccole spille.

      Furente iniziai a toglierle, a cercare di bilanciare la

      rotazione con il mio peso. Ero disperata, ma provai e

      riprovai, bucandomi le mani e imprecando per le punture.

      E la corda cedette. La piccola cadde a terra ma almeno

      potevo dire che il suo eterno dondolare era cessato.

      Finito di vedere quegli orrendi occhi verdi ero confusa,

      ma mi feci forza e iniziai a urlare contro il mostro, non

      avevo altro che la mia voce. Gli dissi, mostrando la piccola

      che giaceva al suolo: «Ecco cosa hai fatto, non mi resta più

      niente, NIENTE! Mi hai tolto tutto perché so che questa

      bambina sarebbe stata legata a me in un futuro. Adesso

      uccidimi se ti va… fai quello che vuoi, cosa vuoi ancora, il

      mio sangue?».

      Lo sfidavo come una pazza, ma lui era cambiato. Mi strinse

      la mano e mi disse che avevo fatto la cosa giusta, che avevo

      superato la prova e che stavo diventando più forte.

      La forza l’avevo temprata dentro di me forgiandola con la

      pazienza, come i fabbri battono il ferro e lo modellano fino a

      ottenere spade affilatissime e oggetti di raro pregio. Ma

      anche chi forgia, spreme e si impegna può sbagliare, ed è

      forse questa l’origine di ogni insicurezza e l’anello comune a

      tutta l’umanità: un brivido e un fiato di insicurezza che ci

      spingono a scappare o ad attaccare; a capitolare o a vincere.

      Questa volta avevo vinto, ma il viaggio doveva proseguire

      e altre sfide si sarebbero parate davanti a me. Da una parte

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