La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli
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«Il Papa da poco nominato, Adriano VI, è un burattino, un fantoccio in mano all’oligarchia ecclesiastica, che ha fatto sì di spazzare via la casata dei Medici, che stavano prendendo troppo potere, finanche a Roma. Non credo che durerà a lungo, prima che Giulio de’ Medici escogiti qualcosa per farlo fuori e riprendere le redini dello Stato Ecclesiastico. Per cui dobbiamo sfruttare il momento, prima che sia troppo tardi. Domani mattina di buon ora, Andrea, partirai per Pesaro, dove prenderai il comando di una guarnigione dell’esercito di Sigismondo Malatesta. Guiderai questa guarnigione verso Urbino, mentre il Malatesta raggiungerà la stessa città da Nord con il resto del suo esercito, attraverso i territori del Montefeltro. Stringerete Urbino in una morsa, da nord e da sud e, sia Medici che occupano il Montefeltro, che il conte Boschetti che governa Urbino su incarico della Santa Sede, non avranno scampo. Tu, Gesualdo, accompagnerai Andrea fino a Pesaro. La strada è lunga e rischiosa, e tu conosci le vie migliori da percorrere. Farai in modo che Andrea giunga a destinazione il prima possibile. Poi tornerai subito indietro. Che non venga a sapere che per qualche motivo, valido o meno che sia, tu abbia seguito Andrea in battaglia. Entro quattro giorni ti rivoglio qui a castello, altrimenti…», e si passò due dita a strisciare la pelle del collo, simulando quello che avrebbe fatto la lama di un coltello premuto contro la giugulare.
Anche cercando con se stesso di non ammetterlo, Andrea aveva scorto brillare una luce di tradimento negli occhi del Duca, mentre questi parlava. Non si era mai fidato di lui, e ora anche meno. Quando poi lui e Gesualdo furono congedati e, uscendo, incrociarono due brutti musi di sgherri, che non si erano mai visti prima a corte, i timori di Andrea furono ancor più accentuati. Per fortuna il Mancino, in cui aveva cieca fiducia, nelle ore e nei giorni a venire, gli sarebbe stato accanto a difenderlo a costo della sua stessa vita.
«Secondo te chi sono quei due, Gesualdo? Sicari, forse? Tagliagole?»
«Non saprei. È la prima volta che li vedo. Ma le loro facce non ispirano alcunché di buono. Ma non parliamone qui. Vieni, andiamo a scegliere i cavalli per domattina. Nelle stalle potremo parlare tranquillamente.»
Quando Matteo e Amilcare furono dentro il salone, il Duca fece sprangare la porta, poi batté le mani. Subito alcune ancelle, in abiti colorati, dalle trasparenze che mettevano ben in evidenza tutte le loro grazie femminili, raggiunsero la sala da una porta secondaria e iniziarono a danzare sulla base di una melodia suonata da invisibili musicanti, nascosti chissà dove. Berengario aveva più di sessant’anni e, in vita sua, aveva avuto ben tre mogli, tutte scomparse in giovane età e in circostanze misteriose. Qualcuno, a corte, mormorava sul fatto che le avesse fatte uccidere lui stesso, una volta che gli erano venute a noia. Era sempre stato un lussurioso, oltre che un amante delle delizie della tavola, tanto da avere dubbi su quale girone infernale sarebbe andato a finire dopo la sua morte. Ma poco importava. L’importante era godere dei piaceri che la vita offriva, finché poteva. E da questo punto di vista, in privato, non si faceva mancare nulla. Allungò il braccio verso una delle ancelle, quella che indossava una tunica di color rosso acceso, e gliela strappò via lasciandola del tutto nuda. La ragazza sapeva già cosa doveva fare, ed era bene a conoscenza del fatto che, se non avesse assolto a dovere il suo compito, l’indomani il suo corpo senza vita sarebbe stato ritrovato in mezzo al bosco da qualche cacciatore. Si avvicinò al Duca e gli abbassò le calze braghe. Poi prese il membro tra le sue mani fino a farlo inturgidire, abbassò i suoi seni prosperosi verso il basso ventre del suo signore, cercando di farlo eccitare sempre di più. Solo quando ritenne che l’uomo era sul punto di esplodere, si rigirò e si fece sodomizzare. Alla fine, il Duca cacciò un grido soddisfatto di piacere e, per ricompensa, infilò una moneta d’oro nella fossetta tra i seni della giovane, che fu abile a trattenerla senza farla cadere in terra.
«Avanti, miei cari ospiti! Ci sono cibo e donne per tutti, qua dentro. Fatevi sotto. Offro io, e oggi sono generoso. E alla fine, parleremo anche di affari.»
Le stalle del castello di Massignano erano in grado di ospitare più di un centinaio di cavalli, ma al momento ne erano presenti una trentina. Tralasciando le giumente più tranquille e docili, il Mancino guidò Andrea fino alla zona in cui erano stati realizzati alcuni scomparti in muratura, dove i destrieri più focosi erano rinchiusi a evitare che si innervosissero solo vedendosi tra di loro.
«Gli stalloni sono più difficili da montare, ma danno molte più soddisfazioni. Sono molto più veloci e possono scagliarsi contro il nemico infischiandosene delle frecce che sibilano vicino alle loro orecchie. E anche se li appesantisci con le armature, diminuiscono di ben poco il loro rendimento. Ecco qua», disse Gesualdo aprendo la porta di un ricovero, dove un cavallo tutto nero nitrì nervoso alla vista dei nuovi arrivati. «Ruffo è il mio preferito. È un murgese, un cavallo originario della Puglia, dove un tempo venivano allevati i cavalli per l’Imperatore Federico II di Svevia e per la sua casata.»
Andrea apprezzò le stupende forme del destriero, poi abbassò lo sguardo per studiarne zampe e zoccoli.
«Si vede che non è un cavallo allevato in pianure verdi e umide, ma sulle colline aride e pietrose della Murgia. Amiamo molto ricordare Federico II a Jesi, perché è la città dove egli nacque, e io ho avuto modo di avere tra le mani il suo trattato De arte venandi cum avibus, dove descrive come questi fossero cavalli adatti alla falconeria, in quanto, al contrario di altri, il Murgese non teme un falco o un’aquila che gli svolazzino intorno, specie quando essi scendono in picchiata per ritornare sul braccio guantato del padrone…»
I loro discorsi furono interrotti dall’udire voci che indicavano la presenza di altre persone. Il Mancino fece cenno ad Andrea di fare silenzio e di rimanere nascosto, acquattandosi vicino a Ruffo e accostando la porta di legno del ricovero senza chiuderla del tutto. I due sgherri poc’anzi incrociati nelle stanze di sopra avevano forse avuto la loro stessa idea, quella di venire a scegliere i cavalli per l’indomani. Convinti che non ci fosse nessuno nelle stalle, parlavano a voce piuttosto alta, cosicché era facile captare i loro discorsi. Un groppo salì alla gola di Andrea quando i tipi si fermarono proprio avanti alla porta semichiusa del ricovero di Ruffo. L’idea di essere scoperti lì dentro e doverli affrontare non è che gli garbava molto, anche perché sia lui che Gesualdo erano disarmati.
Per fortuna i due passarono oltre.
«Meglio non rischiare di cavalcare stalloni che non conosciamo», disse quello più anziano e più brutto, un tipo dal viso butterato incorniciato da una barba spelacchiata. «Prendiamo piuttosto due giovani castroni. Tanto abbiamo il vantaggio della notte. Raggiungeremo con comodo la Torre di Montignano e avremo tutto il tempo di preparare l’imboscata. Sarà un lavoro semplice e veloce e il Duca saprà ben ricompensarci.»
L’altro