La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli
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«In questo caso sarò costretto ad andare a svegliare il giudice Uberti, che non ne sarà molto contento...»
Avendo capito l’antifona, e sapendo che in quei giorni era meglio non mettersi a piantare grane con le autorità della vecchia guardia, Lucia decise di seguire il giovane in Piazza della Morte. In fin dei conti, da lì a poche ore si sarebbe presentata a Palazzo del Governo e avrebbe per sempre dato il ben servito alle vecchie “cariatidi”, che ormai non avrebbero più continuato a ricoprire cariche pubbliche. Quindi era meglio non iniziare a inimicarsi giudice e quant’altri prima del tempo.
Camminando lungo via delle Botteghe nell’umidità dei primi albori, Lucia si strinse nel vestito percorsa da un brivido di freddo, nonostante si fosse già nel pieno della stagione estiva. Attraversò Porta della Rocca continuando a seguire il ragazzo che le faceva strada, ma quando intravide la sua giovane ancella, il cuore le fece un balzo, lo sentì pulsare in gola e non riuscì a trattenere le lacrime che cercavano di sgorgare dai suoi occhi. Mira aveva la testa già appoggiata sul ceppo. Il boia era lì a fianco a lei, col cappuccio in testa e la scure affilatissima poggiata in terra. Non aveva dovuto prendersi neanche la briga di raccoglierle i capelli della condannata in una coda o in una crocchia, in quanto il giorno precedente ci avevano pensato i torturatori di Padre Ignazio Amici a farglieli tagliare quasi a zero. La nobildonna si sentì addosso lo sguardo supplichevole della sua ancella e non poté fare a meno di avvicinarsi, carezzandole la nuca e avvicinando le sue labbra alla guancia della ragazza.
«Mira…»
L’ancella abbassò lo sguardo e si rivolse alla sua vecchia padrona con un filo di voce.
«Adesso posso morire felice. Ho voi qui accanto. So che mi avete risparmiato un più atroce supplizio e volevo ringraziarvi personalmente prima di morire. Pregate per me, e raccomandate la mia anima al Signore.»
Lucia prese la mano di Mira, le si avvicinò di più e le sussurrò delle parole all’orecchio, in modo che né il boia, né il ragazzo che l’aveva accompagnata potessero udire.
«Potrei risparmiarti anche questo di supplizio. Ho delle monete d’oro con me. Potrei pagare il silenzio di questi due. Posso mandare il ragazzo dal falegname a chiedergli di fare una cassa, dicendo che questo era il tuo ultimo desiderio: essere seppellita all’interno di un sarcofago. Il boia non ti ucciderà ma racconterà a tutti di averlo fatto. Gli farò riempire la cassa con delle pietre, in modo che pesi come se contenesse il tuo corpo, e la farò sistemare nei sotterranei della Chiesa della Morte. Nessuno andrà a guardarci dentro. Tu scapperai giù per la discesa e raggiungerai il convento delle Clarisse della Valle. Vestita da suora non ti riconoscerà nessuno. Lascia passare del tempo e poi allontanati da Jesi. Potrai rifarti una vita da qualche altra parte…»
«No, mia Signora. La morte non mi fa più paura. La mia vita finisce qui, oggi, su questa Piazza, su questo ceppo. Provvedete solo a che il mio corpo abbia una degna sepoltura.»
Mira rivolse lo sguardo verso Gerardo, annuendo con la testa. Il boia capì al volo. Il desiderio della condannata era stato esaudito, si poteva procedere. Lucia fece un passo indietro, lasciò la mano di Mira, mentre la scure si sollevava. Guardò gli occhi del boia attraverso i fori praticati nel cappuccio e le sembrò di scorgerli lucidi. Ma non fece in tempo a verificare la veridicità della sua sensazione, perché con un colpo secco lo strumento si abbatté sul collo della vittima. La testa rotolò sul selciato, mentre il resto del corpo fu scosso da convulsioni per alcuni brevi istanti, fino a che si irrigidì e cadde di lato. Gli schizzi di sangue provenienti dal collo sfiorarono Lucia, ma non una goccia andò a imbrattare le sue vesti.
Dopo un attimo di silenzio assoluto, si sentì in lontananza il canto di un gallo. Si stava facendo giorno, quando la Piazza della Morte fu attraversata da un grido prolungato, un grido proveniente dalla viscere di Lucia Baldeschi.
«Noooooooo…!»
CAPITOLO 7
Le cavalcature erano veloci e non temevano le salite, le discese e i sentieri in mezzo alla boscaglia. Così, per evitare il centro di Ancona, Andrea e Gesualdo avevano attraversato la stretta vallata tra le colline, erano risaliti per il Taglio di Candia e, lasciando sulla loro sinistra la Rocca di Montesicuro, erano discesi verso Paterno. Da lì, avevano raggiunto in breve il castello delle Torrette, possedimento dei pacifici Conti Bonarelli. Le porte del castello, come al solito, erano aperte, e pertanto Gesualdo fece cenno al suo giovane amico di attraversare il cortile interno senza fermarsi a dare tante spiegazioni.
«Ehi, voi! Rallentate e scendete da cavallo. Non conoscete le buone maniere, zotici villani?», li apostrofò una guardia, che già aveva preso una freccia dalla faretra e stava armando la sua balestra, mentre i due cavalieri sollevavano la polvere del piazzale facendo schizzare via impaurito chiunque si trovasse sul loro percorso.
Gesualdo sollevò il gonfalone con le insegne del Duca di Montacuto, invitando Andrea a fare altrettanto, a far capire con chi aveva a che fare chi si intrometteva sul loro cammino. La guardia li scrutò in cagnesco, sputò in terra, ma abbassò l’arma. In pochi istanti, i due sbucarono dalla porta settentrionale del castello e si ritrovarono sull’ampia sterrata che correva lungo la costa fino alla foce dell’Esino.
Ormai il sole era alto, quando Gesualdo rivolse per la prima volta la parola ad Andrea. Il mare, sulla loro destra, era attraversato dagli splendidi riflessi donati dai raggi solari. Era tale il bagliore che si rischiava di accecarsi rivolgendo lo sguardo alla distesa d’acqua. A sinistra la collina digradava ripida fino alla strada, a tratti con cenge rocciose, a tratti con le ultime propaggini di un intricato bosco di querce castagnole, rovere e roverelle.
«Fra breve saremo a Rocca Priora. È territorio Jesino, ma ho degli amici. Ci fermeremo a rifocillarci e chiedere notizie sulla sicurezza del percorso. Sappiamo bene che delle brutte facce dovrebbero essere passate prima di noi. Se è gente intelligente non si dovrebbe essere fatta notare. Ma ho avuto l’impressione che quei due fossero degli stolti», disse Gesulado tirando le redini e rallentando il suo palafreno.
Andrea si adeguò e i cavalli passarono dal veloce galoppo a un’andatura più moderata, a un trotto che costringeva i cavalieri a stringere le ginocchia e assecondare i movimenti degli animali.
«Stolti e ubriaconi, ma non per questo meno pericolosi, anzi!», replicò Andrea, dando un’occhiata alla rocca a cui si stavano avvicinando. «Guarda, Gesualdo! Non ti sembra strano? È un avamposto di confine, ma non ci sono scolte sul camminamento della guardia.»
Non fece in tempo a terminare la frase, che il suo destriero si impennò in quanto due frecce erano giunte sibilando e si erano conficcate nel terreno a pochi passi dalle sue zampe. Andrea dovette reggersi forte per non essere disarcionato, ma si mantenne in sella, gettò lo sguardo verso il suo anziano compagno e capì al volo quello che Gesualdo aveva intenzione di fare. Quest’ultimo fece scartare il cavallo sulla destra, fino a farlo girare su se stesso, per dare l’impressione al nemico che stesse battendo in ritirata. Andrea lo imitò, andandogli appresso. Ritornarono indietro per un breve tratto sullo stradone, poi piegarono verso l’entroterra e si immersero nell’intricata foresta ripariale, costituita per lo più da pioppi e salici. Mentre i pioppi svettavano in alto, i salici offrivano una buona protezione ai due cavalieri, che muovendosi con circospezione, cercando di fare in modo che il loro passaggio non agitasse le chiome degli alberi più di quanto non facesse il vento, raggiunsero il greto del fiume Esino, che in quel periodo dell’anno era piuttosto basso, per il fatto che la stagione era ormai asciutta da diverso tempo. Fecero