La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli
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Читать онлайн книгу La Corona Bronzea - Stefano Vignaroli страница 15
«Fai attenzione. L’altra riva è costituita da terreni paludosi. I cavalli potrebbero affondare nel fango e saremmo costretti ad abbandonarli. E non sarebbe una buona cosa rimanere a piedi. Dobbiamo rimanere in acqua. Vedi quel canale? Porta l’acqua del fiume al vallo che circonda la rocca. Raggiungeremo il retro del castello attraverso il fossato. Ricordo che lì c’è una porta di servizio, che non sarà difficile scardinare. È una porta di legno, che permette di introdursi negli scantinati. Non sappiamo cosa sia successo. Forse i nostri due “amici” hanno colto di sorpresa le guardie e sono all’interno del castello, ma non ne sono sicuro. Ho udito con le mie orecchie che ci avrebbero atteso alla torre di Montignano, che è un presidio molto meno protetto ed è già in territorio di Senigallia.»
«E cosa pensi che sia successo qua?»
«Forse il castello, a nostra insaputa, è stato vittima di un attacco nemico, magari è caduto nelle mani dei soldati del Duca Della Rovere. Non lo so, ma di una cosa sono sicuro: che chiunque ci abbia tirato quelle frecce si trova all’interno della rocca. Non sono state lanciate dall’alto, dai camminamenti della guardia, ma da alcune feritoie che si aprono tra il primo e il secondo piano. Se abbiamo fortuna, entreremo nella Rocca dalle cantine e prenderemo di sorpresa questi nostri nemici, che secondo me non dovrebbero essere numerosi.»
«No, Gesualdo, potrebbe essere un suicidio. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare, né sappiamo quanti uomini troveremo là dentro. Piuttosto cerchiamo di defilarci dal retro del castello e allontanarci verso nord.»
«Forse hai ragione, mio giovane amico. Vedo che hai la mente di un abile stratega, piuttosto che l’impulsività di un anziano guerriero come me, che cerca sempre lo scontro a qualsiasi costo. E questo è un bene.»
Intanto avevano raggiunto il fossato che circondava la rocca e ora si trovavano sotto il ponte levatoio, stranamente abbassato, nonostante le ostilità mostrate poc’anzi dall’interno. Sempre rimanendo in acqua e facendo il minor rumore possibile, aggirarono la costruzione, raggiungendo il lato che guardava il mare, su cui non si apriva alcuna finestra, al fine di non offrire facili accessi ai pirati provenienti dall’Adriatico.
«In questo punto non dovrebbe essere rischioso abbandonare il vallo», sussurrò il Mancino, cercando di tenere il tono della voce il più basso possibile. «Ci ritroveremo nel terreno ghiaioso che da qui giunge fino alla riva del mare.»
In effetti in quella zona il terreno non era paludoso, e i detriti portati dal fiume Esino nel corso dei secoli avevano formato una spiaggia di ghiaia e ciottoli, molto bella a vedersi, quanto insidiosa per gli zoccoli e per le zampe dei cavalli. Come gli animali furono all’asciutto, i cavalieri li spronarono per allontanarsi a un’andatura veloce, ma il fondo ghiaioso ostacolava i movimenti degli animali, che più cercavano di prendere il via, più affondavano tra i sassi. A un certo punto, il cavallo di Gesualdo si piegò sulle zampe anteriori, rimanendo inginocchiato: il cavaliere, sbilanciato in avanti, fu sbalzato dalla sella e si ritrovò a terra, per rimettersi in piedi con un’abile capriola. Ritornò al cavallo, riprese le redini, gli gridò di rialzarsi e saltò di nuovo in sella.
«Vedo con piacere che ancora sei agile come un giovanotto, nonostante l’età e nonostante tu abbia l’uso di un solo braccio. Complimenti. Avevo ragione a volere uno come te al mio fianco per questo periglioso viaggio!», fece Andrea, che nonostante la situazione non aveva perso lo spirito.
Ma il trambusto, il rumore delle zampe dei cavalli sulla ghiaia, le grida umane e i nitriti equini, non erano di certo passati inosservati dall’interno della rocca, dalla quale in quel momento stavano fuoriuscendo tre cavalieri bardati di armatura, con le celate strette in testa e con le lance in resta.
«Come volevasi dimostrare!», imprecò Gesualdo. «Le insegne sono quelle Roveresche. Scappiamo, finché siamo in tempo. Non ci tengo a essere infilzato dalle loro lance. Abbiamo un po’ di vantaggio. E anche i loro cavalli avranno difficoltà a galoppare sulla ghiaia. Mettiamo i nostri destrieri al passo e dirigiamo verso nord lungo la spiaggia. Se manteniamo la distanza non ci raggiungeranno. Appena possibile ci butteremo nell’entroterra e dirigeremo verso il centro abitato di Monte Marciano. Il Piccolomini si è sempre mantenuto neutrale, sia nei confronti di Jesi, che di Senigallia. Gli sgherri del Della Rovere non ci inseguiranno.»
Ma poco più avanti, sempre sulla spiaggia, verso nord, scorsero un gruppo di guerrieri a piedi, vestiti con casacche colorate, anch’esse riportanti le insegne del Della Rovere. Si udì una prima sorda esplosione, accompagnata da una nuvola di fumo. Andrea sentì un oggetto fischiare, passando veloce vicino al suo orecchio.
«Cos’era?», chiese al suo amico.
«Una palla di piombo. Hanno armi da fuoco. Fucili ad avancarica. Molto meno precisi delle frecce, ma molto più micidiali, se ti acchiappano.»
«Siamo stretti in una morsa, Gesualdo. Cosa facciamo ora?»
«Là!», rispose quest’ultimo che, con un colpo d’occhio, aveva già realizzato un piano. Una piccola fascia erbosa aveva conquistato una lingua di spiaggia e si dirigeva verso la collina, a breve distanza. «Quella è una buona via di fuga.»
Mentre altre palle di piombo fischiavano vicino alle loro teste, i cavalli, appena raggiunta la fascia di terreno più stabile, nitrirono soddisfatti, recuperando le forze e guadagnando in breve le falde della collina. Intanto anche i tre cavalieri nemici si erano lanciati al loro inseguimento, e ora quelle che passavano vicino alle loro orecchie non erano più palle metalliche, ma pericolose frecce, dalla punta affilatissima. Fortunatamente, i cavalli di Andrea e del Mancino erano ben più veloci degli altri, e non erano neanche appesantiti da cavalieri bardati da armature. I due amici spinsero i cavalli su per il ripido sentiero che saliva verso l’abitato di Monte Marciano. Quando giunsero alla sommità della collina, con il paese già in vista a poche leghe di distanza, si rigirarono verso il basso, e videro che gli uomini del Della Rovere non si erano avventurati oltre un certo punto.
«Come previsto, nei territori del Piccolomini non entrano. Per ora, abbiamo tratto in salvo la vita», affermò il Mancino.
«Per ora!», fu la replica di Andrea.
I due sgherri, Amilcare e Matteo, erano originari di un paesino montano nel territorio della Repubblica Serenissima di Venezia. Ponte nelle Alpi si trovava sulla strada Alemagna, che proseguiva verso nord, oltre i baluardi rocciosi delle Dolomie, fino a raggiungere le terre germaniche. Almeno una volta ogni due mesi gli abitanti del paese sconfinavano in Tirolo per fare scorta di birra. Alcuni di loro avevano cercato di imparare l’arte di distillare l’orzo e il luppolo per ricavarne il buon liquido ambrato e spumoso, ma data anche la difficoltà di comprendere la lingua degli amici tirolesi, non erano mai riusciti a ottenere un prodotto altrettanto buono come quello che andavano ad acquistare al di là del valico. Amilcare, che era particolarmente ghiotto di birra, ne aveva portato una certa scorta, che ormai però era agli sgoccioli.
«In queste zone, non so perché, la birra diventa imbevibile. È solo un’ora e mezza che stiamo cavalcando ed è diventata calda come il piscio», disse Amilcare, scolando l’otre ed emettendo un rumoroso rutto.
Lanciò il contenitore vuoto e floscio al compagno più giovane, che lo afferrò al volo e lo alzò sopra la bocca aperta, facendovi cadere le ultime gocce di liquido. Poi, deluso, lo agganciò dietro la sella. A Matteo, pur di mettere in corpo qualcosa di corroborante, andava bene anche il vino locale e così aveva arraffato un paio di otri di Rosso Conero dalle cantine del castello di Massignano. Si era reso conto che il vino rosso era buono anche se non era fresco, ma che se ne potevano ingerire quantità molto inferiori rispetto alla birra prima che iniziasse a girare la testa. Così, per il momento, cercava di non passarne al compare, che ne avrebbe bevuto in quantità esagerata senza rendersene conto.