La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli
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«Il Montacuto si è accordato con il Malatesta per inviare al suo servizio il giovane Franciolini. Il giorno 22 del mese di Maggio, Andrea Franciolini, con un uomo di scorta, passerà dalle parti di Senigallia, per raggiungere il Malatesta a Pesaro e unirsi al suo esercito», gli aveva riferito il giovane cuoco Giuliano, un giorno che era ritornato a Senigallia con la scusa di andare a trovare la madre. «Ma non vi arriverà mai perché è una trappola. In effetti, il Duca di Montacuto ha già preso accordi in segreto con il nuovo papa per “svendere” la Marca Anconitana allo Stato Pontificio per qualche migliaio di fiorini d’oro. E quindi adesso il Franciolini è un personaggio scomodo. Lo farà uccidere da due sicari presso la Torre di Montignano. Poco importa a questo punto se ci andrà di mezzo anche colui che finora ha considerato il suo braccio destro, Gesualdo, detto il Mancino. Il Duca di Montacuto ha bisogno di soldi, di molti soldi, si è indebitato fino all’osso per far edificare una enorme quanto inutile fortificazione a difesa del porto di Ancona. E non riesce più a giustificare le proprie spese di fronte al Consiglio degli Anziani. Così…»
«Ho capito», disse il Della Rovere, facendo scivolare nelle mani del ragazzo alcune monete d’argento. «Così ha deciso di vendere al miglior offerente città, fortezza, porto e territori, eliminando i personaggi scomodi. Credo che a giorni troveranno morti tutti i componenti del Consiglio degli Anziani della città di Ancona. Chissà, magari un’epidemia, improvvisa quanto provvidenziale!»
La sera stessa, il Duca Francesco Maria Della Rovere rientrò a Mondavio. La mattina successiva, i servi di Orazio Baglioni ritrovarono il luogotenente disteso sul suo letto con gli occhi sbarrati e la schiuma che fuoriusciva dalle labbra. Sul mobiletto a fianco al letto fu ritrovato un bicchiere contenente ancora residui di liquido avvelenato.
«Si è ucciso», sentenziò il Duca appena gli fu riferita la notizia. «Mi aveva confidato qualche giorno fa che soffriva di pene d’amore. Era innamorato, ma la damigella oggetto dei suoi desideri lo aveva rifiutato ben due volte. Peccato, era un bravo soldato. Ora dovrò trovare un degno sostituto!»
La giornata primaverile preannunciava già l’arrivo di un’estate torrida, e Francesco Maria indossava un leggero farsetto giallo e delle comode calze braghe. Al tempo aveva trentadue anni, ma ne dimostrava parecchi di più. Era un uomo non molto alto, ma robusto, il fisico temprato dalle innumerevoli battaglie, sempre combattute in campo. Anche come condottiero, non si era infatti mai tirato indietro di fronte alla pugna. E i nemici che aveva ucciso non si contavano neanche più. La lunga barba scura, i capelli arruffati e lo strabismo della casata Montefeltro, ereditato da parte di madre, facevano di lui un uomo truce, che incuteva timore a chiunque gli si presentasse innanzi. Era infrequente che vestisse abiti leggeri come quel giorno. Spesso, anche nei suoi appartamenti, indossava giubbetti borchiati e calze rinforzate. E non abbandonava mai la sua spada, sempre riposta nel fodero sul suo fianco destro. Per ragioni politiche, si era sposato molto giovane, a soli quindici anni, con la bella Eleonora Gonzaga, dalla quale aveva avuto un figlio, Guidobaldo, che aveva ormai otto anni. Moglie e figlio erano ben lontani da lui e dai suoi campi di battaglie, e godevano nel lusso e negli agi alla corte di Mantova. Ma quando Urbino fosse stata di nuovo sotto il suo potere, avrebbe fatto in modo che Eleonora e Guidobaldo lo raggiungessero al Palazzo Ducale di Urbino, che in quanto a bellezza non era certo da meno rispetto al castello dei Gonzaga. E il fatto di avere di nuovo Eleonora accanto a lui, gli avrebbe permesso di iniziare a pensare a qualche altro figlio. Certo, la sua discendenza era assicurata, ma un signore che si rispetti deve avere uno stuolo di figli, da mostrare in pubblico e da indirizzare, al momento opportuno, a ricoprire importanti cariche di potere, degne del nome che avrebbero portato.
Pensare alla sua moglie lontana gli aveva solleticato desideri e istinti da troppo repressi, e già sentiva il proprio sesso sollevarsi. Ma come fare a soddisfare in quel luogo istinti che emergevano in tutta la loro potenza?
Chiamò un armigero fidato, colui che in assenza del luogotenente comandava le sue guarnigioni di stanza a Mondavio, il Capitano d’armi Lorenzo Ubaldi.
«Ora che il fido Baglioni non c’è più, vorrei passare in rassegna la rocca per rendermi conto delle forze che abbiamo. Guidami, orsù, per i meandri e per i bastioni del castello.»
Ma l’intento del Duca era quello di farsi condurre nelle segrete, dove sapeva essere detenute anche delle giovani donne. Pertanto si dimostrò interessato, ma in maniera superficiale, alla Santa Barbara, agli alloggi dei soldati, al piazzale delle armi e ai camminamenti di guardia. Si soffermò invece su uno studiolo, che era appartenuto a suo padre, ricavato nel corpo principale del castello, in cui al centro troneggiava una scrivania in legno massiccio e tre pareti su quattro erano occupate da scaffali pieni di libri. Anche se all’apparenza non sembrava, il Duca era comunque appassionato di cultura e letteratura, nonché di arte e architettura, e pertanto decise in cuor suo che avrebbe passato un bel po’ di tempo all’interno di quella stanza. Mentre pensava che ne avrebbe potuto fare il suo studio personale, un'altra vampata proveniente dal suo basso ventre gli ricordò l’urgenza che aveva. Fece un cenno col capo al milite che l’accompagnava e, sempre sotto la sua guida, ridiscese le scale, uscì nel piazzale delle armi, passò accanto a una moderna bocca da fuoco, accarezzandone con la mano la fredda canna metallica, poi indicò un’apertura a volta chiusa da una possente cancellata in ferro.
«E là che cosa c’è?», chiese, fingendo di non esserne a conoscenza.
«Le prigioni, Eccellenza!»
«Voglio far visita ai prigionieri. Hai le chiavi dei lucchetti?»
«Sì, ma ve lo sconsiglio, Vostra Eccellenza, non è un bello spettacolo. La maggior parte di essi sono condannati a morte e…»
«Decido io quello che va bene e quello che non va bene per me!», si rivolse al suo soldato, guardandolo di sbieco, con l’occhio strabico che non si sapeva bene in che direzione fosse rivolto. «Apri!»
Varcato il cancello, gli andò incontro la guardia carceraria, un uomo dalla schiena ingobbita, i denti fradici e l’alito pestilenziale. Attaccato alla cintola, il mazzo di chiavi che serviva ad aprire le celle. I due uomini accompagnarono Francesco Maria lungo un buio corridoio, dal fondo in terra battuta, che si addentrava in discesa vero i sotterranei della rocca. Giunti in un antro rischiarato da alcune torce, dove l’odore di escrementi era isopportabile, il Duca si rese conto che le celle occupate dai prigionieri erano tutte dallo stesso lato, in modo che essi non si potessero vedere e non potessero in alcun modo comunicare tra loro.
«Cos’hanno fatto?», chiese.
Il carceriere si avvicinò alla prima cella e sputò in direzione dell’uomo che vi era detenuto.
«È un assassino. Della peggior categoria. Ha ucciso la moglie e ferito a morte la propria figlia. Finirà appeso a una corda! Non vedo l’ora di vederlo penzolare.»
Il prigioniero, in un primo momento, abbassò lo sguardo, poi, come preso da furia improvvisa, iniziò a gridare.
«Non sono stato iooooo! Come ve lo devo direeeee?»
Passarono avanti e, in breve, l’uomo si azzittì. In un’altra cella c’era una giovane, una ragazza che avrà avuto sì e no quattordici anni. Aveva le braccia incatenate al muro e stava accovacciata a terra. Un lurido vestito, che una volta doveva essere stato bianco, non riusciva a coprire a dovere i suoi seni che, sia pur immaturi, debordavano dallo scollo slacciato. Anche le gambe erano del tutto scoperte. Sporche di terra e fango. Il carceriere strizzò l’occhio al Duca.
«Lei è una strega. È stata sorpresa nel bosco a raccogliere erbe. Dovremmo impiccarla, o metterla al rogo, ma ancora aspettiamo che un qualche sacerdote della Santa Inquisizione