La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli
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«Gesualdo, anch’io so far funzionare bene la mia testa, e capisco solo che sono quasi quattro anni che sono qui, in questo castello, e le mie membra si stanno impigrendo. Se dovessi essere a tu per tu con un nemico, non so come andrebbe a finire… Forse non bene per me!»
Il Mancino, che aveva capito l’antifona, per non far precipitare il giovane Franciolini nella malinconia, balzò in piedi, afferrò la sua pesante spada con la sinistra e invitò l’amico al combattimento.
«Coraggio, allora, vediamo quanto sei arrugginito. Secondo me, quello che ti manca di più qua dentro è una donna. Inutile continuare a pensare alla tua Lucia, chissà mai se la rivedrai! Lascia fare a me e questa notte sarai in compagnia. Un uomo ha bisogno di sfogare non solo i muscoli delle braccia e delle gambe. Conosco un paio di servette che, al bisogno, sanno quello che fare per soddisfare un muscolo che da troppo tempo è in letargo! Basta elargirgli alla fine un paio di monete d’argento, ed è fatta», e scoppiò in una grassa risata.
Andrea, colpito nel vivo, impugnò a sua volta la spada e la incrociò con violenza con quella del Mancino.
«Brutto bastardo che non sei altro, per chi mi hai preso? Per uno che va a sgualdrine? Sono fedele alla mia amata, le ho giurato fedeltà che ero quasi in punto di morte. Lei ha curato le mie ferite e io la dovrei ricompensare con un tradimento?»
Gesualdo si sbilanciò indietro, mantenendosi ben saldo sulle gambe, e fece sì che la spada del giovane si abbattesse al suolo con fragore.
«Eh, l’amore gioca brutti scherzi! Sì, oggi sei proprio distratto, combatti molto male, amico mio. Sei fortunato di avere me di fronte e non un nemico, altrimenti saresti già spacciato.»
Andrea alzò di nuovo la spada e abbatté un nuovo fendente contro quella del Mancino, che la fece roteare, provocando lo sbilanciamento e la caduta a terra del suo avversario. In un attimo gli fu sopra, il filo della lama poggiato minaccioso al collo del giovane. Quest’ultimo, con un agile balzo all’indietro, si liberò della stretta e con un calcio fece volar via la spada dalle mani del Mancino. Poi si riappropriò della sua e ripartì all’attacco. Questa volta era Gesualdo in posizione di inferiorità. Gli sgherri che assistevano non erano nuovi alle scaramucce tra i due e scommettevano chi sull’uno chi sull’altro. In breve la ressa diventò incontrollabile: i due continuavano a battersi, inveendo l’uno contro l’altro, a volte anche gridando, mentre gli astanti continuavano a scommettere somme sempre più alte e incitavano alla lotta. Fino a che, all’improvviso, tutti si ammutolirono. Andrea e Gesualdo si resero conto che c’era qualcosa che non andava e smisero di combattere. Sollevarono la testa e si ritrovarono faccia a faccia con il Duca Berengario di Montacuto.
«Smettetela di giocare, voi due, e andatevi a rendere presentabili. Stasera avrete l’onore di cenare seduti alla mia tavola», sentenziò con voce autoritaria. Poi si girò sui tacchi e sparì lungo il corridoio, nella direzione da cui era venuto.
Di rado, nel corso di quei lunghi anni, Andrea era entrato nell’ala del castello dove risiedeva il Signore, il Duca di Montacuto. Erano stanze molto più ricche, sia in mobilia che in decorazioni, rispetto a quelle che era abituato a frequentare, nella parte della Rocca dove soggiornavano soldati, armigeri e servi, e dove lui a fatica aveva conquistato una camera con un pagliericcio, grazie all’intercessione di Gesualdo con il luogotenente del Duca.
Si contavano poi sulle dita delle mani le volte che Andrea si era trovato al cospetto del Duca. Va bene che quest’ultimo era spesso lontano dal Castello, in quanto passava molto tempo in Ancona, sia per tenere sotto controllo gli affari amministrativi della città, ora che aveva spodestato il Consiglio degli Anziani, sia per seguire da vicino i lavori di costruzione della cittadella fortificata, nuovo baluardo a difesa del porto. Fatto sta che, dal momento che il Duca lo aveva salvato dal patibolo con un preciso scopo, quello di inviarlo al servizio dei Malatesta di Rimini, si era aspettato di dover abbandonare quel luogo di ozi molto prima. E invece, sembrava che il Duca ci prendesse gusto a non riceverlo, quando per un motivo, quando per un altro, e a continuare a tenerlo in mezzo a quei barbari, che nulla avevano a che spartire con lui, con la sua nobiltà, con il suo lignaggio, con la sua cultura. Non aveva trovato nemmeno un libro da leggere per poter trascorrere il tempo in maniera degna, e l’unico passatempo era quello di allenarsi a combattere, cosa che gli era venuta davvero a noia. L’unico suo conforto era l’amicizia di Gesualdo che, nonostante le umili origini, riteneva un compagno fedele e saggio nel dispensare consigli. Il fatto, ora, di camminare a fianco a lui, lo rincuorava e infondeva nel suo animo il coraggio di cui aveva bisogno per affrontare l’eventuale colloquio con il vecchio Duca di Montacuto.
«Finalmente ci siamo. È di sicuro giunta l’ora di partire alla volta dei territori del Montefeltro, di combattere sul serio, di avere ai propri ordini uomini valorosi», diceva Andrea al suo amico, percorrendo un lungo corridoio, in cui i suoni dei passi erano attutiti da tappeti disposti sopra il pavimento, e ai rumori e alle voci non era consentito rimbombare, grazie a una serie di arazzi che tappezzavano le pareti. «Farò tutto quello che mi sarà ordinato, ma su un punto, su un solo punto, sarò intransigente con il Duca. Tu, Gesualdo, dovrai accompagnarmi. Sarai la mia guida e il mio braccio destro. Non voglio nessun altro accanto a me nel tragitto da qui a Rimini.»
«Mio giovane amico, tu sei forte e robusto, mentre io sono un vecchio invalido. Non credo che il nostro Signore acconsentirà a questa tua richiesta. Anche se non mi convoca ormai da tempo e non mi ha più affidato missioni dopo quella che entrambi conosciamo, il solo sapermi lontano da qui potrebbe essere motivo di cruccio per il Duca. Dai ascolto. Stai zitto e non avanzare sciocche pretese!»
«Stai zitto, tu! Sarai vecchio e invalido, ma combatti molto meglio e sei molto più astuto di un giovane guerriero. E poi...»
Le parole gli si smorzarono in bocca, perché erano arrivati alla fine del corridoio. La porta spalancata di fronte a loro mostrava la sala da pranzo, dove una lunga tavolata era imbandita con ogni ben di Dio. Due riverenti servitori tenevano aperte le pesanti tende di velluto rosso che fungevano da riquadro all’uscio. Al loro passaggio si proferirono in un profondo inchino, poi richiusero le tende una volta che gli ospiti ebbero varcato la soglia. Andrea e Gesualdo guardarono con meraviglia gli arrosti di pavoni, fagiani e faraone, le patate arrosto e le verdure lesse. Tutti i piatti erano abbelliti da decorazioni, in un tripudio di colori raro a vedersi. Per non parlare degli odori, che giungevano alle narici di Andrea a ricordargli i profumi che solo nella casa paterna aveva a suo tempo apprezzato, e che aveva quasi del tutto dimenticato. Il vino nelle brocche era rosso, del tipico colore scuro del vino del Monte Conero. Andrea avvertì una leggera gomitata, preludio del consiglio sussurrato dal Mancino.
«Vacci piano con il vino. Per uno come te, abituato a Verdicchio e Malvasìa, il Rosso Conero può essere pericoloso. Va subito alla testa!»
«Il momento favorevole potrebbe non durare a lungo, e quindi dobbiamo agire ora a sostegno del nostro amico Sigismondo Malatesta», iniziò a dire Berengario rivolto ai suoi ospiti, mentre addentava un coscio di pollo, tenendolo per l’osso, mentre l’unto dalla mano gli scivolava lungo l’avambraccio. «Ora che Leone X è morto, Urbino e il Montefeltro vanno strappate ai Medici e alla Santa Sede! Entro breve tutti i territori delle Marche, compresa la Marca Anconitana, dovranno essere riportati ai giusti equilibri. Sottomessi sì, allo stato della Chiesa, ma pur sempre con governi civili indipendenti. Purtroppo, il Duca Francesco Maria Della Rovere sembra essersi ritirato nella sua Senigallia, rinunciando a riconquistare il Ducato di Urbino, toltogli da Cesare Borgia e poi passato al nipote di Papa Leone X. Inoltre, i territori di Jesi sono nel più totale abbandono. Dopo la morte del Cardinal Baldeschi, è stato inviato un legato pontificio, che sembra non abbia tanto intenzione di governare la città, quanto di finire di ridurla allo stremo, alla miseria, approfittando della vacanza di un governo civile.»
A queste ultime parole, il cuore