Non resta che scappare. Блейк Пирс

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Non resta che scappare - Блейк Пирс Un thriller di Adele Sharp

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raccolti in uno chignon. Assomigliava a una pragmatica insegnante supplente, o forse a una suora senza divisa. Non c’era una sola ciocca di capelli che fosse fuori posto, e addirittura le rughe attorno agli occhi sembravano tendersi nel tentativo di mettersi sull’attenti.

      Una agente con cui aveva lavorato in passato… Ma non John.

      Questa particolare agente era stata il supervisore di Adele quando lei lavorava per il DGSI. Era anche stata declassata dal precedente incarico, uno scenario sfortunato del quale Adele si era ritrovava a sostenere la colpa. Tutto lo sdegno e l’impazienza erano visibili in ogni sfumatura degli occhi dell’agente Sophie Paige, ma almeno la donna alzò una mano e fece un rapido gesto indirizzato ad Adele per richiamare la sua attenzione.

      Non un gesto di saluto, ma più uno di richiamo, come un padrone con il suo cane. Adele rimase impietrita un secondo, sentendo la gente che le passava accanto per andare a salutare i proprio familiari o amici. L’ambiente era ravvivato da risate, dal rumore di corpi che si abbracciavano, da mormorii sommessi di viaggiatori esausti che se ne andavano dall’aeroporto e correvano verso taxi o auto.

      Per un brevissimo momento, Adele dovette resistere all’urgenza di fare dietrofront e tornare sull’aereo, lasciando Sophie Paige e il suo cipiglio lì vicino alla vetrata.

      Ma alla fine raccolse un residuo di coraggio, si infilò i capelli dietro alle orecchie con rapidi gesti furtivi e avanzò verso la figura dell’agente che era stata suo supervisore e che ora le faceva da partner.

      CAPITOLO SEI

      Portata fuori dal centro di Parigi, nei sobborghi nord-occidentali della zona dell’Ile-de-France, Adele teneva gli occhi fissi davanti a sé mentre l’auto si fermava al quarto piano del parcheggio del DGSI. Il tragitto pomeridiano era proceduto nel più completo silenzio. Ora l’agente Paige uscì bruscamente dal veicolo, dicendo qualcosa su un incontro con Foucault. Lasciò Adele da sola a farsi strada attraverso la sicurezza per poi arrivare all’ufficio del suo vecchio mentore.

      Entrare nell’ufficio di Robert fu un sollievo.

      Adele poté sentire le spalle che si rilassavano come se le avessero tolto di dosso un peso, quando passò attraverso la porta dopo aver bussato delicatamente. La giornata di viaggio le pesava ancora addosso, ma il suo umore si sollevò mentre scrutava la familiare stanza. Le pareti avevano ancora le stesse vecchie foto incorniciate di auto da corsa e, sotto di esse, c’erano le mensole con polverosi tomi rilegati in pelle. Ora c’erano due scrivanie nella stanza. La seconda era stata posizionata accanto alla finestra, con una sedia girevole dallo schienale alto, rivestita in pelle, piazzata subito dietro. Sulla scrivania, una targhetta dorata diceva Adele Sharp.

      Sentendo un uomo schiarirsi la gola, Adele riportò l’attenzione alla prima scrivania e al suo occupante.

      Robert Henry era già in piedi. Si alzava spesso in piedi quando una donna entrava nella sua stanza. L’uomo, basso di statura e con lunghi baffi arricciati tinti di nero, teneva la schiena dritta.  Indossava un abito che gli calzava perfettamente e che Adele sospettava fosse stato realizzato su misura per lui. Robert aveva origini benestanti: il lavoro al DGSI non gli serviva, ma a lui piaceva. Forse questo era il motivo per cui possedeva una delle migliori schede al dipartimento. Robert un tempo aveva giocato a calcio per una squadra semi-professionista in Italia, ma era tornato in Francia quando era stato assoldato dal governo francese, ben prima che venisse fondato il DGSI.

      Fisso Adele per un momento, ma i suoi occhi luccicarono, tradendo il sorriso che teneva nascosto dietro le labbra.

      “Ciao,” disse Adele, incapace lei stessa di trattenere un sorriso.

      A quel punto Robert Henry le sorrise, mostrando una schiera di denti perfettamente bianchi, dove però due erano mancanti. Adele aveva sentito molte storie su come avesse perso quei denti, una più improbabile dell’altra.

      Si guardarono negli occhi da una parte all’altra della stanza, osservandosi per un momento.

      Poi Adele disse: “Usi troppi emoji.”  Parte del cattivo umore di prima iniziava a stemperarsi di fronte al vecchio mentore e amico.

      Robert tirò su con il naso. “La considero una forma d’arte.”

      “Uhm,” disse lei. “Non eri stato tu a dirmi che l’avvento dei cartoni animati era stato la morte della cultura?”

      Robert allargò le spalle e sollevò il mento, quindi rispose: “Un uomo raffinato sa come ammettere di essersi sbagliato.”

      Il sorrisino appena abbozzato di Adele si trasformò in un sorriso bello e proprio. Robert Henry era stato per lei come un padre per molti anni. Il suo padre vero non era particolarmente affettuoso, ma Robert era un tipo capace di mettere da parte i propri modi per assicurarsi che lei si sentisse accolta e confortata. Robert possedeva una villa, ma ci viveva da solo e accoglieva spesso con gioia l’opportunità di avere degli ospiti. Adele sarebbe stata da lui fintanto che si sarebbe fermata in Francia.

      “Ci hai messo un po’,” le disse Robert, guardando l’orologio. Era di luccicante argento, il genere di oggetto che si sarebbe normalmente visto al polso di un banchiere. Robert si sistemò i gemelli della camicia e spinse l’orologio sotto il bordo dei polsini perfettamente stirati.

      Adele posò la valigia contro lo stipite della porta e appoggiò sul pavimento la borsa del computer. “Chiunque abbia programmato il mio volo, mi ha fatto fare uno scalo di tre ore a Londra,” disse. “Poi c’è voluto un po’ per arrivare alla macchina: siamo dovute andare a piedi dall’altra parte dell’aeroporto. Una persona più meschina penserebbe che lei l’abbia fatto apposta, giusto per infastidirmi.”

      Robert si accigliò. “Lei? Con chi ti ha messa a lavorare, Foucault?”

      Invece di rispondere, Adele attraversò la stanza e allargò le mani, abbracciando l’amico. Lei non era altissima, ma Robert era quasi dieci centimetri più basso di lei. Lo tenne stretto a sé e sentì un piacevole calore nel petto. Era più piccoletto di quanto ricordasse. Quasi… fragile. Anche se Robert si tingeva baffi e capelli, Adele non poteva trascurare il fatto che stesse invecchiando. Sciolse l’abbraccio e gli sorrise ancora. “Ho sentito che lavoreremo nei pressi del tuo ufficio,” gli disse.

      Robert le diede una pacca sulla spalla con gesto confortante. “Sì, quella è tua,” disse, accennando alla scrivania che portava la targhetta con il suo nome.

      “L’ho messa vicino alla finestra. Mi piace lì.”

      “L’ultima volta che sei stata qui, ricordo che ti piaceva la vista da lì,” aggiunse, scrollando le spalle. Abbassò la mano e tornò alla propria sedia, sbuffando sommessamente mentre vi si accomodava.

      “Va tutto bene?” gli chiese Adele.

      Robert annuì, facendo un gesto con la mano come a voler cacciare via altre simili domande. “Si, certo. Le vecchie ossa non si muovono come un tempo, quindi temo che non sarò sul campo con te.”

      Adele annuì evasiva. “Me l’ero immaginato. Ad ogni modo, abbiamo bisogno di qualcuno che tenga le fila delle cose da qui.”

      Robert non stava più sorridendo. Tutt’a un tratto il suo sguardo sembrava duro.

      “Non sei malato, vero?” disse rapida Adele. Non era sicura di quale fosse l’origine di quella domanda, ma le uscì dalla bocca prima che potesse fermarla.

      Robert sorrise e scosse la testa. “No, non che io sappia. Ma,” continuò, picchiettando le dita contro la scrivania e poi guardando

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