Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti. Italo Svevo
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Poi ella lo subì e non seppe o non si curò di nascondere che la sua visita l’annoiava. Egli si dimostrava premuroso, chiedeva notizie, dava consigli, ma non riceveva in risposta che monosillabi, e vedeva ricevuti i suoi consigli con silenzio interrotto da qualche esclamazione poco entusiastica:
— Sì... sì... proverò anche questo se vuole. — Alfonso cercò di riparare alle mancanze della madre dando lui le risposte che il medico voleva dall’ammalata, ma comprese all’aspetto pallido di costui, al suo imbarazzo, all’interruzione improvvisa della visita, di non essere riuscito nel suo intento. Spaventato dall’ira ch’egli credeva covasse sotto all’affettata freddezza, gli corse dietro e con la franchezza che credeva essere la migliore politica gli chiese se fosse adirato per il contegno della madre. Attese con vera ansietà la risposta. Nelle vicinanze non essendoci altri medici gli premeva di renderselo amico. Il giovine medico ebbe il torto di esitare per un istante e poi quello maggiore ancora di dire con disprezzo, lisciandosi affettuosamente con una mano i grossi baffi:
— Oh! questi vecchi, specialmente quando sono ammalati, perdono la testa! — Poi nulla aggiunse e non rispose nulla alla promessa di Alfonso che avrebbe indotto la madre a portare maggior rispetto a chi lo meritava. Il giovine medico era offeso e aveva anche l’intenzione di farlo sentire.
Ritornato dalla signora Carolina, Alfonso volle convincerla che il dottor Frontini meritava di venir trattato meglio.
— Ma sì, ma sì — rispose ella annoiata, — lo tratterò meglio, ma poi non due volte al giorno. — E immediatamente dimenticò il medico.
Non aveva più voglia di dormire altro e passarono metà della notte a fare dei piani per l’avvenire. Ella doveva venir a vivere con lui in città. Per adescarla meglio a sperare, facendole credere nella sincerità delle sue speranze, le descrisse la vita in città cercando anche di abbellirla. Così dovette raccontarle molta parte delle proprie avventure e, visto che ne era la più importante, non seppe omettere completamente tutto quanto si riferiva a quella con Annetta. Raccontò della sua amicizia col vecchio Maller e con Macario e anche come passava le sere a scrivere il romanzo con Annetta. Quest’Annetta che subito diede sospetto alla signora Nitti egli disse essere brutta molto e per di più promessa sposa di un suo cugino; non si poteva trovare meglio l’accento dell’indifferenza.
In città, in due, sarebbero vissuti felici e comodi perché il ricavato della vendita della casa e dell’orto li avrebbe aiutati. Non sarebbero andati dai Lanucci, gente troppo triste; sarebbero rimasti soli perché volevano vivere allegri. Forse nessuno dei due sinceramente sperava, ma intanto era una bella musica che ascoltavano. Le parole non sembravano irragionevoli. Perché abbandonando quei luoghi ella non avrebbe potuto lasciarvi la malattia?
Furono ben presto richiamati alla triste realtà. Per un quarto d’ora alla signora Carolina riuscì di celare che si sentiva male. Alle domande di Alfonso, il quale della sua inquietezza s’era avvisto, ella rispondeva che stava bene quantunque agitata. Volle anche reagire. Premeva una mano di Alfonso come se in quella stretta cercasse sollievo e teneva chiusi gli occhi avvertendo che voleva dormire. Ma questa resistenza durò poco e con un grido di dolore si levò a sedere.
— Non ne posso più! — mormorò sordamente. Aveva il respiro frequente e breve. — Fin qui, — disse accennando a un punto del petto, — l’aria non giunge più oltre. — Da questa espressione soltanto egli comprese che cosa ella sentisse.
Come ella volle, l’aiutò ad alzarsi dal letto e sedere su un seggiolone comodo su cui il vecchio Nitti aveva passato parecchie ore d’ozio all’aria aperta e che ora era accanto al letto, destinato proprio a ricettare l’ammalata nelle sue ore peggiori. La coprì, mentre livida, coperta da un sudore freddo, ella abbandonava la testa sullo schienale; apparentemente non vedeva ciò ch’egli andava facendo. Di tempo in tempo dava un grido con voce alterata, o anche, con sommo sforzo, esprimeva qualche parola con la quale si lagnava o imprecava.
Per parlargli ella non trovava tanta voce quanto per lagnarsi. Due volte egli non comprese che cosa ella gli chiedesse. Voleva aria, voleva ch’egli aprisse la finestra e, dopo compreso, avendo egli esitato temendo per essa del freddo, esasperata con un’occhiata di risentimento, ella mormorò:
— L’aprirò io.
Non lo fece perché non le riuscì di alzarsi dal seggiolone.
Dalla finestra ch’egli aveva spalancata, entrava ora l’aria in abbondanza. Ad onta della mortale agitazione in cui si trovava, egli se la sentiva entrare benefica nei polmoni assetati. La respirazione della madre continuò frettolosa e superficiale.
Egli si rammentò che avrebbe potuto avere bisogno di Giuseppina. Corse nella stanza vicina e la trovò che dormiva con le coperte fino al mento. La chiamò gridando, ma inutilmente, e impaziente dovette risolversi a scuoterla per un braccio.
— Che c’è? — mormorò ella, e si capiva che a mezzo desta lottava per continuare a dormire perché tentava di sottrarsi alla mano che l’aveva afferrata, e si faceva piccola piccola contro il muro.
— Mamma sta male. Si alzi e accenda il fuoco.
— Ma se non serve! Bisogna lasciare che passi da solo.
Senza dubbio ella era quasi del tutto desta, ma usava della poca capacità di ragionare che così aveva acquistato, per tentar di provargli che sarebbe stato bene di lasciarla nel suo letto.
— Si alzi! — ripeté imperiosamente Alfonso e dovette correre via chiamato da un grido della madre.
La signora Carolina era ritornata da sola nel letto e premeva la bocca sul guanciale. Lo pregò ora di chiudere la finestra perché il caldo forse le avrebbe fatto bene e poco dopo gliela fece riaprire, sempre sorpresa che da tanti tentativi non le venisse alcun sollievo.
— Ho fatto accendere il fuoco. Vuoi un tè che forse ti calmerà?
— Sì, sì, — gridò ella con una gioia come se le avessero proposto di star bene.
Giuseppina era ancora in letto e di nuovo addormentata. Furibondo egli la trasse con violenza per il braccio che pendeva penzoloni fuori del letto; era l’unica parte che avesse obbedito alla prima chiamata. Irritata e quindi ben desta, Giuseppina si mise a gridare ch’era una vergogna che dopo una giornata in cui aveva molto lavorato non la si lasciasse dormire. Poi però fu spaventata.
— È matto? — chiese a mezza voce vedendolo saltare per la stanza e gettarle raggomitolate le sue gonnelle.
— Si levi immediatamente e faccia un tè, — le gridò furibondo, — altrimenti la getto fuori della porta.
Ella si apprestò ad alzarsi senza mormorare più oltre.
L’affanno doloroso avuto dalla madre era diminuito; aveva ancora la respirazione celere ma non si lamentava più. Qualche poco di sangue era ritornato a colorirle il volto. Così supina con le braccia inerti sembrava dormisse. Badando di non far rumore egli chiuse la finestra. Allorché venne Giuseppina col tè, volle impedirle di andare al letto, ma la signora Carolina la chiamò. Bevette qualche cucchiaiata di tè senz’aprire gli occhi e Giuseppina, vedendola calma, disse agramente:
— Non era dunque tanto grave!