Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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si considera prima di tutto come siffatta sentenza risponda a capello allo aneddoto delle anguille scorticate vive esposto un dì dal Windam nel Parlamento inglese, poichè quello, che riesce praticare col boccone il quale ti possa capire dentro la bocca, bisogna mettere da parte col boccone che sia capace ingolarti; e nè anco la Liguria, e la Sardegna potè a fine di conto masticarsi il Piemonte vivendo in cotesti paesi odio profondissimo contro di lui, un dì frenato dalla impotenza per via delle condizioni politiche di Europa, oggi temperato dalla necessità di costituirci in popolo grande e potente. – Alle teste gagliarde del Piemonte sembra adesso sia accaduto quello che avvenne al cavaliere, il quale avendo messo il piè nella staffa nell’atto di pigliare lo abbrivo invocò lo aiuto di Santo Antonio, e con tanto impeto il fece che innanzi di potere levare la gamba per inforcare l’arcione cascò giù capofitto dall’altra parte; per la quale cosa si doleva col santo, che troppa grazia gli avesse conceduta. Troppa Italia da masticare di punto in bianco alle mandibole subalpine: affermano taluni avere udito gentiluomini piemontesi impazientirsi dell’annessione delle provincie meridionali d’Italia come d’impiccio; e questo ho udito ancora io, e congratularsi con la fortuna, e con loro, che la Lombardia dopo un’ammannimento tedesco di dieci anni fosse tornata loro a mo’ di bottino di guerra però che nella guisa, che ci venne nel 1848 non si sarebbe potuta mantenere, tanto fumava allora, e dalla Costituente fino ai rovesci delle maniche per le vesti militari non ci era da averne bene, mentre adesso domata, e castrata era proprio una pace....

      Rimane la egemonìa della civiltà, la quale sarebbe unica che si vorrebbe accogliere, e meritasse durare: questa però desidera nel popolo, che la esercita un primato dal giudizio universale consentito, bontà quasi ineffabile, e arguzia profondissima in esercitarlo, e disposizione nel popolo subietto a lasciarsi fare: mentre se non possiedi le qualità del primato invece di prendere resti preso, come accadde ai Langobardi, ai Normanni e ad altri popoli stanziati qui in mezzo d’Italia. Vuolsi altresì che nel popolo egemonico la civiltà sia naturale, e propria non ascitizia; però che se ella sia accattata da altri non che tramandarla altrui, e’ fie bazza se la mantiene egli; onde parrà, che meno, che ad altri la qualità egemonica si attagliasse alla Luna, di cui i raggi riflessi se danno luce, non fanno calore: ed anco la civiltà da stabilirsi non vada contro corrente, e trovi corrispondenza, altrimenti passa come olio nell’acqua, e tale fu la civiltà dei Saracini a Napoli, in Sicilia, in Sardegna, e nella Liguria dove attecchì un momento ma non potè cestire.

      Ciò fermo; ora voi altri uomini subalpini in che e come volete esercitare questo primato su noi vestendo la presunzione arrogante col classicismo del nome? – Già voi, ed i vostri più incliti, di civiltà non si talentano; e’ sembra che piaccia loro e giovi essere considerati stirpe in linea diritta discesa dai vetusti allobroghi, o dai taurini entrambi celti, non gentile sangue latino. Già lo dissi altrove, e qui ripeto, imperciocchè ai dì nostri queste anime di polpo poco sentano, e ritengano meno. Cesare Balbo desiderava l’appennino ligure si fendesse, e pertugiasse: più in là no, però ch’egli non consentiva: «che nemmeno fantasticando si lasciasse la immaginazione varcare altri appennini: hacci abbastanza di sangue meridionale, abbastanza di fantasia poetica, e d’ingentilimento italiano, aggiunti i Liguri ai Piemontesi; e troppo di gentilezza tornerebbe in effeminatezza.» Di fatti o che vogliono desiderare di più i Piemontesi: paradiso terrestre Torino; sancta sanctorum Torino: se ne contentino, e non cerchino migliore pane, che di grano: «hacci nel mondo, domanda a sè stesso il dabbene conte Balbo, hacci nel mondo paese più bello del Piemonte? Egli giace appunto a quarantacinque gradi equidistante tra l’equatore e il polo; tra l’arsura e il gelo. Il bene fisico come il morale deve stare nel giusto mezzo.»

      In virtù di primato di arti i Piemontesi non potranno certo attentarsi ad esercitare la egemonìa: costà l’architettura ci si trova come Cristo legato alla colonna per ricevervi battiture, quante fabbriche ci si fanno; una casa pare riflessa da cento specchi le abbiano posto dintorno; io non lo so di certo, ma ho temuto che da un punto all’altro mettessero su a Torino una Società in accomandita per fabbricare uomini e donne come a Nurimberga i burattini tutti di un conio. Molti assomigliano i casamenti di Torino alla mostra dei soldati, e mi sembra paragone, che non ritragga giusto la cosa; torna meglio in chiave rassomigliarli alle processioni delle povere orfane, che talora mi diedero il male di mare nel vederle per le vie di Torino; tagliate tutto a un modo dalle forbici della stupidità messe in mano alla beghineria: povere anime! con gli occhi bassi, le mani soprammesse sul ventre, con carni, che paiono mozziconi di candele avanzati alla novena di san Luigi Gonzaga. – E come in fondo alla processione di queste poverine anime tu vedi spuntare una figura, che tu credevi impossibile, eccettochè nel sogno dopo avere cenato con ceci, e pesce salato, e quì in Torino trovi viva e verde ad ogni svolta di canto; un mascherone da fontana per virtù d’incanto fatto capace di buttare fuori dalla bocca invece di sprilli di acqua versetti di salmi penitenziali, torto, e bistorto; con certe braccia lunghe da allacciarsi le fibbie delle scarpe senza pure chinarsi; e certi piedi, che nei giorni di riotta cittadina dispenserebbero da costruire barricate; un prete insomma in roccetto bianco, sul quale, caso mai presumesse significare la candidezza della coscienza di cui lo porta, si avrebbe a scrivere come i notari quando saltano un foglio nei protocolli: alba «per errorem!» Un prete con un berretto quadrato in capo su cui i tre spicchi predicano come tre predicatori in bigoncia, chè un prete non può essere bagnato e cimato prete dove non gli manchi uno spicchio o d›intelletto, o di cuore, o sovente di ambedue. – La similitudine capisco ancora io, che passa le proporzioni; di così lunghe ne adoperava Omero, ma comprendo del pari che se Omero mal fece non porge scusa a me di comportarmi peggio: insomma pari a questo prete in fondo delle processioni ti si mostra lontano lontano allo sbocco della via la cupola della cappella regia, che verun pasticciere al mondo nei suoi estri di pastafrolla ardirebbe imitare in un pasticcio quando anco glielo commettesse la demenza in persona pel dì delle sue nozze; e se dico il vero me ne richiamo a tutti, anco ai Cafri, anco agli Esquimesi, non però ai Moderati i quali con duegento cinquanta voti sarieno tomi da preferire quel coso alto che sta sul duomo di Torino alla cupola del Brunellesco. E la cattedrale di Torino o non vi pare ella una trappola tesa dalla religione per chiappare i topi miscredenti? Torino egemonico per arti in Italia con quel palazzo regio ameno quanto lo Spielberg villeggiatura allestita per gl’Italiani dalla nostra amica Austria! Con quel giardino dilettoso a vedersi così, che presso al quale perde il pregio di bellezza lo stradone dei pioppi che da Pisa mette al Gombo in foce di Arno! D’incanto passando in incanto, ecco il palazzo Madama congerie immaginata da Belzebub l’ultimo giorno di carnevale; lì prigioni, lì apparitori, lì littori (lo dico alla romana), lì guardioli, lì assessori di polizia, lì tormentatori, e tormentati, lì specola per contemplare le stelle, lì pinacoteca, lì senatori, lì fossati, dove si coltivano cavoli, o vuoi fiori, o vuoi cappucci. Sì signori; in piazza Castello, allato al palagio dei ministri, intorno all’aula dei senatori, e di tutte le altre degne persone ricordate qui sopra crescono all’ombra dell’aquila sabauda cavoli fiori, o vuoi cappucci. Certo bell’umore, a cui io notava il fatto tutto tremante, mi rispose: – che aveva torto a farne le stimate; ammirassi al contrario la previdenza piemontese, la quale considerando di avere a surrogare via via i senatori defunti se n’era allestito un semenzaio sotto casa. – Così il Piemontese bizzarro; ma io protestai rimbeccando subito la insinuazione irriverente, dacchè è certo, che dei Senatori, come diceva lui, in Senato non ce ne ha che tre quarti, tutto al più quattro quinti, mentre gli altri la sanno lunga, e la sanno contare. E poi il semenzaio dei Deputati dove l’arebbono a mettere? – E il Piemontese di rimando: per ora non so, ma credo che aspettino di Francia un modello di stufa per coltivarli anco nei sidi del Gennaio. A cotesto palazzo dietro e dai lati prigione, fortezza, guardiolo e simili, appiccicarono davanti una facciata composta non so nè manco io di quanti archi sgangherati di un bianco sudicio, e dello stile che si chiama barocco; non mai fu vista l’architettura concia in guisa più feroce e truculenta: cotesto guazzabuglio ti fa l’effetto di un cagnotto dei tempi feudali che pensi essersi travestito mettendosi alla faccia ed in capo una maschera, ed una parrucca da marchese della reggenza. Ho detto che l’architettura non fu mai vista tanto barbaramente trucidata come nel palazzo Madama; ho detto male, supera la ingiuria il palazzo Carignano, che si deve definire così: ribellione in permanenza di mattoni cotti contro il senso comune; colà non occorre linea che vada diritta; storta la facciata, storte le scale di cui la prima a gradini

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