Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
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Io non riporterò la testimonianza di scrittori fiorentini come quelli i quali si potrebbe per avventura supporre che procedessero parzialmente, ma sì di Carlo Capello oratore veneziano del pari che degli altri dei quali mi valsi per giudicare la qualità delle armi piemontesi; costui pertanto, scrivendo al serenissimo Doge gli afferma: «tuttavia non si perdono di animo e sempre con maggiore costanza si confermano in volere ovvero conseguire la libertà, ovvero portarsi di sorte, che se la perdono, speso, e consumato tutto l’avere loro non vi sopravviva alcuno, e solamente si dica: qui fu Firenze. «E quanto più il pericolo stringe tanto maggiormente s’intorano a mettersi ad ogni sbaraglio. «Tanta, scrive il medesimo oratore il 14 Luglio 1530, è la costanza degli animi di ciascuno, tanto indurata la ostinazione di volere liberarsi che hanno deliberato pubblicamente patire ogni estremità, e subito, che il Ferruccio si scopra… uscire della città con tutta la gente di guerra e con quelli della milizia cittadina, e combattere e così vincere ovvero insieme con la vita perdere il tutto avendo determinato, che quelli che resteranno alla custodia delle porte, e dei ripari, se per caso avverso la gente della città fosse rotta abbiano con le mani loro ad uccidere le donne ed i figliuoli, e por fuoco alle case, e poi uscire alla stessa fortuna degli altri, acciocchè, distrutta la città, non vi resti se non la memoria della grandezza degli animi di quella, e che sieno d’immortale esempio a coloro, che sono nati, e desiderano di vivere liberamente.»
Che se questa deliberazione, la quale non ha riscontro nelle storie, tranne nella giudaica, dove gli Ebrei difesero Gerusalemme da Tito imperatore menzogna di umanità, non sortì il suo effetto, il mondo lo sa, vuolsi attribuire alla codarda avarizia degli Ottimati, i quali allora adoperavano come la setta dei Moderati adesso, e al tradimento di Malatesta, il quale, come disse Matteo Dandolo allo ambasciatore del Duca di Urbino: – ha venduto quel popolo, e quella città, e il sangue di quei poveri cittadini, a oncia, a oncia.
Dopo cotesta epoca illustre, e lacrimevole non vale, per opinione mia, il pregio ricordare milizia italiana: entriamo nei tempi in cui il Filicaia lanciò nella serva Italia i due sonetti pari a due gridi di dolore, che c’introneranno perpetuo gli orecchi, finchè ella non sia tutta sgombra dagli stranieri.
– … Del non tuo ferro cinta
Pugnar col braccio di straniere genti
Per servir sempre o vincitrice, o vinta:
Quando la Francia si avventò alle alpi repubblicana in vista, ladra in fatti e tiranna, i Piemontesi o soli, o in compagnia degli Austriaci davvero mala prova fecero, nè possono cavarne argomento ad esercitare egemonìa.
Nel 1848 le armi piemontesi sembra che avessero virtù finchè mantennero l’ardore di che l’avevano arroventate lo entusiasmo popolare, e l’ira; poi giù giù illanguidiscono, e disperdonsi nello sbandamento più che battaglia, ed anco rotta di Custoza. – Nel 1849 Novara.
E Novara fu troppo peggio che sbandamento, se come allora la fama porse, e registrò la storia, si ebbe a chiamare presidio nemico per salvare la città dalla rapina dei nostri. Chè se le rapine novaresi taluno negasse oltre le testimonianze degli scritti io non saprei altrimenti provarle, non però delle genovesi di cui io stesso vidi i vestigi, ed udii i deplorabili racconti; nè valore, nè resistenza scusano, imperciocchè nè prodezza propria, nè gagliarda difesa, la quale è pure prova di animo generoso che vuolsi dai soldati massimamente onorare scusano le ladronaie; e per queste vanno offuscati i nomi d’altronde chiarissimi del Malboururgh antico, di Massena, di Soult; ed in ispecie del Rusca piemontese, della cui avara crudeltà si conservano memorie singolari.
E mentre combatteste voi, forse gli altri Italiani filavano? Comecchè raccolti tumultuariamente, nè soldati come voi altri in genere, in numero, e caso con tutte le regole forse non seppero i volontari combattere, morire, e vincere? – Perchè mai si licenziarono quasi gente immonda? E perchè a disfarli fu speso maggiore moneta, che non impiegarono a farli? E soldati sembra a voi che sarebbero quelli i quali voi v’ingegnate plasticare sul vostro modello? Hanno a difendere la Patria, e di Patria nulla hanno da sapere; li presumete soldati cittadini e li pretendete tali in procinto di avventarsi in battaglia, sentano lo sprone delle parole concitate del Capitano, e proibite poi che apprendano, più ancora, che ammirino i gesti degl’illustri capitani del popolo. Col popolo di cui sono sangue, e nel quale, superstiti, avranno a rientrare non piglino usanza; ne stieno appartati, dimentichino sè essere figli, o fratelli; soldati unicamente hanno da diventare; ma in cotesto modo educansi gladiatori non già soldati italiani; così si allevano i mastini affinchè guardino gli orti dai ladri non s’instituisce milizia onore a un punto e tutela della Patria. – Grave fatto è questo e come pieno d’ingiusta diffidenza così a Dio non piaccia, che partorisca funestissimi effetti: dunque temete che il popolo vi contamini i soldati? dunque o il popolo non più si accorda con voi, o voi col popolo? Eppure cotesto popolo volle liberissimo ieri il regno italico con a capo il reale di Savoia. Come! ieri consenso, ed oggi forza? Di già a questo? Ma i reami abbattuti quale altra legge avevano tranne la forza? E non bandiste voi, proprio voi, che un governo il quale si appoggia alla forza ormai non ha più causa, nè ragione di vita?
E tacendo del valore delle armi nè manco gli ordinamenti militari vostri paiono così saldi da presumere in grazia di questi la egemonìa sopra gli altri italiani, imperciocchè non entrando nel ginepraio del come si spenda il danaro, noi vediamo fare, e disfare la tela dello esercito, secondochè mutano di tessitore; ed anco qui prego Dio, che non voglia, che invece di tessere una veste nuziale, il Ministro o piuttosto i Ministri non ci ammanniscano una Sindone, la quale sarebbe causa non già di adorazione, bensì di esecrazione perpetua.
Insomma se i Piemontesi sè amano e noi, e lo vogliamo credere, importa, che smettano il vezzo di presumere sè chioccia, e noi uova da lasciarci covare. Noi non patiremo certo nè tribù di Levi, ne tribù di Beniamino: fratelli vi amiamo, compagni vi accettiamo, disuguali no, molto meno padroni. Se la casa di Savoia diè lo Statuto al regno, ricordate come non fosse concessione sibbene restituzione; se lo mantenne Vittorio Emanuele il cuore e il senno lo sovvennero nello adempimento del debito suo, e n’ebbe rimerito di fama, titolo unico tra quanti apparvero principi sopra la terra, riconoscenza di popoli, e stato, che lo renderà superiore a molti potentati, inferiore ad alcuno. Nè noi neghiamo, anzi confessiamo volentieri, non mediocre conforto essere venuto agli spiriti liberali d’Italia vedere sempre ritta la bandiera italica in Piemonte, comecchè spesso pendente già lungo la stacca a mo’ di vela nelle uggiose calme dell’Atlantico; e confessiamo altresì che quivi il talento per volere sia stato pari alla fortuna per potere, dacchè se la vostra terra non si fosse distesa oltre il crine delle Alpi, e a verun patto potesse sopportarla