Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi
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E tuttavia scrive Livio con la consueta sua magnificenza: «non senza consiglio gli Dei, e gli uomini scelsero cotesto luogo per porvi Roma; quivi colli saluberrimi la circondano, quivi il fiume destro per trasportare agevolmente dalle spiaggie mediterranee le vittuarie, e i cibi marini; prossimo ha il mare per le sue comodità, non però troppo da temere offesa di armate nemiche: luogo unico insomma per giacitura in mezzo alle terre d’Italia, e per augumento di Roma.»
Ma Livio non presagiva il dominio dei Preti capaci a disfare in tre quanto il Creatore fece in sette giorni con le poderose sue mani: e posto eziandio, che Livio movesse soverchio affetto ella è cosa sicura, che Roma sotto Augusto conteneva quattromilioni di anime, e ai tempi di Vespasiano il suo circuito sommasse a 13,200 passi. Roma aveva are, e sacerdoti, e vittime votive, e messi da parte gli emblemi di forza prepotente a ragione la salutarono ed effigiarono sotto Nerva Roma felice con in mano un timone per chiarire come a lei spettasse il governo del mondo.
Ora giova pel suoi nuovi destini, ch’ella sia così, imperciocchè l’uomo pigli amore alle cose che gli costano fatica, massime se trovi il compenso largo alla opera durata; la quale ragione essendo pari per gli obietti animati ovvero inanimati spiega la causa per la quale i padri tanto si appassionino pei figliuoli. Nè io mi condurrò mai a credere, che la natura ci abbia dichiarato perpetua guerra, però che questo sarebbe contrario al fine della creazione: di vero sebbene da prima più spesso e con maggiore ampiezza, oggi rado, e ristretto la natura agitandosi muta mari in deserti, e viceversa, e monti in valli o valli in monti trasformando orribilmente l’aspetto delle cose, pure gli uomini assai più tenaci delle formiche non isgomentandosi tornarono indefessi al lavoro, ed ora la natura quietata lascia vincersi, ma da mani valorose, ricordando in certa guisa i connubi spartani, dove al marito toccava usare una quasi violenza alla moglie, e ciò perchè accendendosi più veemente l’appetito ne nascevano figliuoli gagliardi a maraviglia e belli.
Dove mai per ricerche ed esempi si dimostrasse che la natura veramente sta in guerra contro l’uomo, con esempi manifesti e non meno copiosi mi rimarrebbe a chiarire come non sia da per tutto così; e nelle parti dov’ella soverchia troppo, l’uomo intontito si rannicchia nella inerzia, mentre all’opposto nelle meno dure cresce di coraggio facendo come alle braccia con la natura, e le fora i monti, le incatena torrenti, mette il morso al mare, le acchiappa il fulmine, e se ne serve da corriere, e ad altre maggiori audacie egli si attenta nè ella se ne cruccia: però non parmi vero, nè utile affermare la necessità della guerra perpetua della natura contro l’uomo, dello spirito contro la materia, della libertà contro la fatalità.
Quello, che io affermo troviamo giusto considerando che nulla impedisce, che Roma possa tornare quale fu prima, e qualche segno ne vediamo anco adesso nel bonificamento delle paludi pontine, e Roma, che cascò fino a non contare dentro i suoi muri oltre sessantamila anime, risorse a stato meno infelice.
Quivi città da popolare, terre a dissodare, culture a instituire, paduli a prosciugare; quivi elementi fruttuosi proposti all’esercizio delle industrie umane: Roma a conquistare; l’antichissima Roma diventò quasi un nuovo mondo aperto alla solerzia degl’Italiani; l’acquisto di terra agevole, ferace per lungo riposo, le opere da condurre, premio corrispondente alla fatica somministrano altrettante cause per desiderare di possederla, e posseduta tenerla per ogni verso accettissima.
Non importa, che Roma torni alla immane grandezza dei tempi di Augusto, e tuttavia bisognerà pure che cresca oltre quello che adesso è, per la quale cosa giova, che ella abbia luoghi vuoti di abitatori e desideri riempirli, e maggiormente diventerà scema per lo spulezzare di tanti scarafaggi forestieri usi a comparire dove si fa pattume, ed a scomparire dove il pattume si rinetta. Le varie parti d’Italia forniranno il proprio contingente di nuovi incoli che alla nuova dimora porranno amore pure ritenendo l’affetto per l’antica, donde certamente hanno da scaturire due beni, che Roma diventerà capitale di tutti, e di nessuno esclusivamente; Panteon delle rappresentanze dei diversi popoli italiani; stretta con vincoli quasi di parentezza con tutte le città italiche; l’altro, che i vari Municipi parranno come confusi in lei: nè dinanzi a Roma alcuno sentirà rimuginarsi dentro l’uzzolo di primeggiare; e cesserà una volta per sempre ciò che torna in supremo fastidio adesso, voglio dire che dove tu freghi di un’attimo le improntitudini municipali di Torino ti bandiscano la croce addosso come uomo insoffribile per misero ed eccessivo furore di campanile.
Che se la politica, e la economia indicano Roma capitale d’Italia, ragioni di etica ci sospingono gli spiriti italiani. Che importano libri costà? Lì ti parlano le ruine, e i sassi, e t’imprimono solenni insegnamenti. Odi Lutero; quando ei prima la vide racconta, che cadde sopra le ginocchia, e levate le mani al cielo esclamò: «Salute Roma, o la santa, o la consacrata dal sangue dei martiri… e pure adesso tu sei cadavere, mucchio di cenere.»
L’altro tedesco, cui reputò bello convertire la sua musa di fuoco in istatua di marmo, Pigmalione alla rovescia il quale rapiva il fuoco celeste per animare la sua creatura di marmo, il Goethe scriveva di Roma: «altrove ti è mestieri cercare, qui la copia ti opprime: ad ogni passo ti occorre o palazzo, o giardino, od arco di trionfo, o intercolonio, o ruina, o casuccia, o presepio così fitto che tu potresti disegnare ogni cosa sopra il medesimo pezzetto di carta. A che serve una penna? Qui bisognerebbe possedere mille stili, e non pertanto ti sentiresti vinto ogni giorno dalla sorpresa, dall’ammirazione, non meno che dallo spossamento. – Contemplando questa città che dura da oltre venticinque secoli tante volte, e così pienamente trasmutata di forma e d’indole, e che nondimanco sta sempre sopra la medesima terra e spesso co’ medesimi chiodi, e co’ medesimi arpioni, talora crediamo assistere al gran consiglio del destino, e partecipare ai suoi eterni decreti. – Roma è scuola solenne, dove ogni dì t’ispira troppe più cose, che tu non puoi con parole significare; e sarebbe spediente dimorarci per secoli chiusi dentro silenzio pitagorico.»
E l’arduo Byron, il re dei poeti dell’anima, allo aspetto di Roma mandava fuori questi nobili concetti: «O Roma! O Patria mia! O città dell’anima! Gli orfani del cuore devono volgersi a te madre solitaria d’imperi estinti! Essi impareranno da te a comprimersi in petto i loro affanni meschini. Che sono di faccia ai tuoi i nostri patimenti, e i nostri dolori? Venite a vedere i cipressi, a udire i cuculi, ad aprirvi una viottola su gli sfasciumi dei troni, e dei tempii voi di cui le angoscie sono sciagure di un giorno… ecco un mondo fragile sotto i nostri piedi quanto la nostra creta.
Roma dalle:
«Antiche mura, che ancor teme, ed ama
E trema il mondo quando si ricorda
Del tempo andato e indietro si rivolve»
Affermano Roma avesse tre nomi uno sacerdotale ed era Flora o Anthusa, l’altro civile, che fu Roma, il terzo misterioso Amor. Quanto a me credo di ciò sia niente e l’Amor nascesse da leggere alla rovescia il nome Roma; chè se mai avessimo a reputare vera la leggenda questo noi impareremmo di più, che ammonita fino dai suoi primordi ad amare trasgredì perpetuamente al precetto, donde le venne quel fascio di miseria, che sbigottisce i suoi stessi nemici, e tuttavia dura; imperciocchè nè senno astuto, nè prodezza di braccio valgano dove manchi amore. – Non può accertarsi, pure è da credersi, che la umanità