Lo assedio di Roma. Francesco Domenico Guerrazzi

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Lo assedio di Roma - Francesco Domenico Guerrazzi

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diritti, od obliqui di tribolare la gente, e farne suo pro. Dopo la notizia della Libertà per amarla e praticarla veruna torna più utile quanto quella della Tirannide per evitarla ed aborrirla, perocchè questa sia quasi il rovescio di quella; così nella maniera stessa, e per lo medesime ragioni dopo considerato le facultà dell›anima umana fino a quale stupenda estensione si possano esercitare nel bene giova vedere del pari a qual punto estremo giungano nel male. – Costà i ladri non s›infingono, aperti rubano e la rapina ostentano; chiamansi Mummio o Verre, che quegli la Grecia, e questi Sicilia scorticarono come vittime sagrificate alla loro insaziabile avarizia. Caligola va franco alla volta di Giove, e gli strappa la barba e il manto di oro affermando che gli Dei non portano barba, nè patiscono freddo; mentre ora non si ardisce riprendere non già ai Numi, ma ai preti la male acquistata sostanza; in sembianza compunta, atteggiati a confiteor ecco si accostano di scancio all’altare, ci si inginocchiano davanti, e quando il proto attendo a leggere in cornu epistolæ il vangelo di San Giovanni acciuffano le candele, e soffiatoci su se le rimpiattano in tasca: poi chiotti chiotti tentano svignarsela, imbecilli! gli rivela ladri il puzzo di moccolaia che mandano i mozziconi rubati. Il popolo, che ripiglia il suo non ha bisogno di lavarsi le mani dentro l’acqua benedetta.

      L’avarizia non piglia sembiante di amore di Patria, molto meno di umanità; truce è, e truce si mostra. Opimio console avendo per pubblico bando promesso pagherebbe a peso di oro il capo di Caio Gracco, Lucio Settimuleio vuota il cranio dello amico spento, e c’infonde piombo, perchè aumentato il peso il console gli cresca il prezzo, e poichè, somma avarizia sia l’agonìa del regno; tu vedrai per questo Tullia non rifuggire a passare sul corpo di Servio Tullio, e mentre torna trionfante ai domestici lari su carro di cui le ruote segnano per la via una traccia di sangue paterno empie di paura la città, e impone per sempre il nome di scellerata, alla via infame per tanto sterminio. Caio Toranio in grazia di procurarsi il favore dei Triunviri svela il luogo dove si tiene nascosto il padre, e somministra i segni perchè i sicari spediti a trucidarlo lo riconoscano. Il padre tratto fuori, più che di sè sollecito del figlio, domanda s’ei viva; rispondongli: vive, e te, con la sua delazione, ammazza. Il misero cadde trafitto più della morte dolendogli la causa della morte. Pari o peggio il fato di Lucio Vellio Annale, che mosso da paterno affetto mentre sotto mentita veste, essendo egli proscritto, si fa al campo Marzio per promovere nei comizi la questura del figlio, scoperto da questo, lo denunzia, e preponendosi ai littori ne segue le traccie, lo trova, e al proprio cospetto comanda, che gli tronchino il capo.

      Potrai lagnarti d’ingratitudine, o sopportare con molesto animo l’oblio dei cittadini, ovvero arrovellarti altresì dei tradimenti, e delle persecuzioni dei tuoi carissimi un giorno, quantunque volte tu, miri Furio Cammillo accusato da Lucio Apuleio tribuno di peculato perchè, se la fama porge il vero, gli furono rinvenute in casa due porte di bronzo dalle spoglie etrusche, morire in bando ad Ardea? Nè con diverso guiderdone pagato Scipione Affricano secondo salvatore della Patria costretto a concludere la sua vita a Linterno; certo di questo fu volontario lo esilio, quello di Cammillo per sentenza, e quando nelle esequie del figliuolo si tribolava. Il primo della ingratitudine cittadina non pigliò vendetta oltre quella di negare le sue ossa alla Patria facendo questo suo proponimento scolpire sopra il suo sepolcro: ingrata patria nè ossa quidem mea habes; vendetta veramente atrocissima, ma l’unica, che senza rimorso il cittadino può trarre dal luogo, che lo vide nascere, e nondimanco Cammillo hassi a giudicare più grande di Scipione, conciossiachè percosso dalla immanità dei suoi, e quinci cavando funesti auspici per la Patria supplicò gli Dei, che accettassero il suo capo, e delle pene espiatorie il colpissero. – Della miserabile morte di Marco Tullio Cicerone tutti sanno, o molti; Caio Popilio Lena da lui difeso, e salvato nell’accusa di parricidio, presso la spiaggia di Gaeta gli fu sopra mozzandogli il capo, e la destra: soldato era Popilio, suo imperatore Marco Antonio; a Roma nei tempi truci delle proscrizioni soltanto, fra noi in tempi ordinari coteste obbedienze soldatesche si lodano, si premiano, ed anco si presume onorare; pochi all’opposto sanno il caso senza dubbio più reo di Caio Cesare oratore, il quale dopo avere (arduo carico!) sottratto alla scure il capo di Sestilio accusato di maestà contro Silla, mentre a sua posta travolto nella proscrizione di Cinna supplica asilo nelle case del cliente, costui lo strappa dalle perfide mense, e dagli altari dei nefandi Penati e lo consegna a morte. Se ciò commettesse Sestilio per paura o per cupidità ignoriamo; ma se fu per paura di morte si mostrò indegno di vita, se per premio, degnissimo di morte.

      Le crudeltà antiche di Roma non vennero mai superate, eccettochè in Roma dalle più recenti dei Papi, e dalle modernissime del moscovita Alessandro, di cui l’amicizia è sì cara ai moderati di Francia. Contempla, fra infiniti, questo caso: Caio Mario in mezzo alle mense ricevuto l’odiato capo dell’oratore Marco Antonio lo stazzona con feroce voluttà, gli dice ingiuria, poi così sanguinoso con le proprie mani lo pone ornamento al convito, e Pubblio Annio, che glielo portò in grembo vuole che così imbrodolato di sangue si sdrai su i letti convivali; poi continuando a guardare per la storia vedrai tutta la stirpe di Mario di mala morte schiantata, e le sue stesse ceneri cavate dall’emulo Silla fuori del sepolcro e disperse su per le acque dell’Aniene. – Di Silla, se il cuore ti basta, puoi esaminare le quattro legioni senza misericordia trucidate nel campo marzio, e lui dire ai Senatori raccolti nel tempio di Bellona spaventati dagli urli, e dal rivo di sangue irrompente nel tempio: «non è niente: pochi ribelli ora si castigano per mio comandamento;» i cinquemila abitanti di Preneste anch’essi, affidati alla sua fede, e anch’essi con istrage promiscua ridotti in pezzi; i quattromila e settecento proscritti prima per odio, poi per cupidità; nè risparmiati la vecchiezza, ed il sesso; anch’egli si dilettò di morti con trucissima industria prolungate; anch’egli, come un dì gl’imperatori antichi posero nell’atrio delle loro magioni le spoglie dei popoli vinti, volle che nell’atrio della sua sopra tante aste conficcassero i capi di L. Scipione, di Giunio Norbano, e di altri parecchi. Mentre a piè del letto fa dai servi strangolare Granio vinto dall’ira muore per istianto di apostema verminosa; gli eredi arso il corpo, ne celano la cenere onde non avvenga a lui quello, ch’egli ordinò si facesse con la cenere di C. Mario.

      Taccio della lascivia, mostruosa piuttosto che infame, di Messalina, che conduce pubbliche nozze, vivo Claudio l’imperiale marito, ricercatrice notturna di soldati pei guardioli, sfidatrice di femmine perdute a gara di vergogna. Nerone, ed Eliogabalo convitanti come a festa allo spettacolo di tali abbominazioni, le quali la notte non ha manto sì fosco, che valesse a nasconderle degnamente.

      PARTE II. Assedio di Roma.

      Comprendo ottimamente la impazienza di coloro, che male ponno aspettare al canapo la storia di quanto il popolo oprò per avere Roma, e tenerla sostenendo il memorabile assedio, e di quanto sta per operare la monarchia, che se n’è accollato il compito: però importa non arrecarsi degl’indugi da un lato, perchè innanzi tutto bisogna che aggiustiamo qualche partita con Roma; dall’altro, perchè se dobbiamo compire il libro col racconto dei gesti monarchici per salire al Campidoglio noi potremo attendere un pezzo.

      Dal primo assunto noi ci sbrigheremo presto come quello che è riposto in potestà nostra; quanto al secondo spetta alla monarchia e al suo governo e non a noi. Noi abbiamo pronte l’anima e la penna; sta alla monarchia apprestare le armi e combattere. Noi ci sentiamo sempre disposti perchè nostro ausilio sia Dio. La monarchia senza aiuti stranieri sembra non possa fare: almeno così ci afferma chi tiene il maestrato della guerra: più bellicoso, chi amministra l’erario: ma la guerra fin quì si è condotta con i cannoni carichi non con le casse vuote.

      Parliamo di Roma sacerdotale, e poichè il Papa si vanta rappresentante in terra del principio di ogni giustizia, ch’è Dio, miriamo un po’ qual diritto egli possieda, come ai diritti altrui chini la fronte, e se Dio possa manifestarsi alle sue creature per via di così indegna, o scellerata, o stupida cosa come fu la maggior parte dei pontefici romani. Tanti già favellarono su questo argomento, che potrà parere per avventura soverchio; e parrà male per due ragioni; la prima delle quali consiste in questo, che ogni uomo considera i medesimi fatti con modo suo proprio, accadendo nella speculazione quello, che succede nella visione degli enti fisici; ed abbine esempio nelle forme diverse, che gli alunni ricavano da uno stesso modello nelle scuole del disegno; onde ti senti

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